In morte della capacità di giudizio nell’Era della Noia Digitale
Creato il 08 dicembre 2014 da ZioscribaNell’estate del 2008, dopo aver sentito vari marmocchi della fascia d’età fra i dodici e i cinquanta ripetere fino alla nausea che i nuovi giochini elettronici erano “uguali in tutto e per tutto alle partite di calcio vere”, e telecronistelli da quattro soldi urlare, in preda all’orgasmo e in senso elogiativo, che una certa azione di Barcellona-Real era “come la playstation” (non viceversa!!) mi decisi a comprare il primo joypad della mia vita.In fondo, l’asserzione era quasi credibile: considerati gli anni luce tecnologici che ci separavano dai primi videogiochi, che per me erano stati anche gli unici (come il mitico Space Invaders di Tormod Tjaberg e Nicola Salmoria – questi almeno i nomi che apparivano sui monitor) c’era davvero la concreta possibilità che la nutrita schiera di bamboccini e bamboccioni adepti del moderno monodivertimento monomarca dicesse il vero.
Spesi dunque una non indifferente cifra per equipaggiarmi, poiché sapevo che un mio giovane amico del mare, da anni vicino di cortile estivo, possedeva la fatidica fonte di tutte le delizie digitali, ma, non so se per il fatto di appartenere a una famiglia avarognola o a una generazione di egotici totali, aveva soltanto il suo joypad personale, e gli sfidanti dovevano portarsi appresso il loro (cosa che peraltro per l’homo omologatus non costituiva un problema, visto che esserne sprovvisto comportava la squalifica, o per meglio dire la radiazione, sociale).
Non vi dico la delusione: la tanto lodata grafica dava l’idea che anziché nel 2008 ci trovassimo ancora nel 1982, davanti allo schermo dello Space Invaders, coi suoi verdi ripari friabili, provvisori, insicuri e ingannevoli (ma almeno lì nessun pirla veniva a dirti che sembrava davvero una battaglia spaziale!)
Altro che emozionante e realistico match di football: le possibilità di movimento erano schematicissime e ripetitive, e sia le combinazioni d’attacco che i gesti difensivi avevano un millesimo delle possibilità dinamiche e di variazione che mi sarei aspettato. Una cosa a dir poco ridicola, non di per sé stessa, ma in raffronto a quello che la mia totale e orgogliosa astinenza, unita agli elogi unanimi che mi ero per troppo tempo sorbito, mi aveva indotto pensare. In nessun modo, nemmeno per un millesimo di secondo, nemmeno ubriacandomi, avrei potuto pensare di trovarmi dentro una partita di calcio vera, anziché alle prese con una patetica e stilizzata simulazione, con una pacchianata sopravvalutata e pochissimo lontana da quelle delle sale giochi della mia tarda adolescenza. Erano arrivati a così tanto con la persuasione di massa, con l’indottrinamento tecnoglionito?
Sulle prime pensai che in parte potesse dipendere dal mio scarso livello, anche se in realtà con quell’agguerrito ragazzo avevo venduto cara la pelle, ed ero stato sconfitto di misura. Sia come sia, per meglio valutare la cosa, ben volentieri feci un passo indietro, e sollecitai una partita fra coetanei – lui e un altro dello stesso estivo cortile – per farmi un’idea definitiva e spassionata.
La delusione raddoppiò: il gioco fra loro si fece un po’ più intenso e leggermente più vario, ma restava farraginoso, discontinuo, macchinoso, ripetitivo: continuava a essere chiaro che si trattava di uno stupido giochino per computer, e non della tanto decantata “partita come quelle vere” di cui tutti si riempivano la bocca da anni.Per non parlare della pena per i due ragazzetti (e quindi per il me stesso di poco prima) che potei provare osservandoli “da fuori”: i gesti compulsivi, frenetici ma sempre dello stesso tipo, più da scimmiette ammaestrate che da umani intelligenti, più da automi alla catena di montaggio che da uomini liberi intenti a Giocare, e la fissità degli occhi, gli sguardi ottusi e superconcentrati tipici dell’individuo mentalmente offeso che cerca di applicarsi a qualcosa e magari meccanicamente, tenta e ritenta, ci riesce, ma senza davvero capirla. Erano in procinto di iscriversi all’Università, ma sembravano più degli scimpanzé da esperimento, o gli ospiti di qualche penoso istituto. E soprattutto non davano l’idea di divertirsi. Ma neanche un po’.
Alla fine, regalai quell’inutile e insulso joypad al mio giovane amico avarognolo. Quello non sapeva più come ringraziarmi, sembrava impazzito di gioia. Non era in grado di capire che quella che a lui sembrava la più folle generosità del mondo, non era per me che un atto di pigrizia: avrei evitato di riavvolgere il cavo attorno a quel coso, di rimetterlo dentro una borsa, di riportarlo a casa a fine vacanza per farlo ammuffire in cantina, o di dovermi occupare dello smaltimento in discarica di quel costosissimo pezzo di plastica.
Poi, in spiaggia, giocammo a carte, a bocce, a racchettoni, a calciobalilla e a pingpong. E ci divertimmo come matti.
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