di Rina Brundu. All’inizio c’era la Harlem Renaissance (letteralmente rinascimento di Harlem, lo storico quartiere nero di New York), ovvero quel movimento culturale statunitense sviluppatosi tra il 1920 e il 1930, che vide come protagonista la comunità afroamericana e il suo tentativo di acquistare maggiore coscienza intellettuale attraverso una riscoperta ed una profonda analisi delle “radici”. Nonché delle endemiche problematiche che quelle “radici” portavano seco. E poi ci furono autori come Zora Neale Hurston (1891-1960) – scrittrice, studiosa di folklore – che con le sue opere, prima fra tutte Their Eyes Were Watching God (1937), preferì presentare la comunità di appartenenza nel suo quotidiano, nella sua naturalità, nella sua povertà, nelle difficoltà e nelle preoccupazioni che sono tipiche di tutti gli uomini e di tutte le donne. Ovvero, muovendo oltre le pur importanti preoccupazioni degli uomini e delle donne vittime di un razzismo continuato, reiterato, scientificamente perpetrato come purtroppo dovevano subirlo i neri statunitensi di inizio XX secolo nella vergognosa America del Ku Klux Klan.
Ma se è vero che io studentessa universitaria di letteratura anglo-americana debbo a questi autori più impegnati una maggior comprensione della straordinaria cultura afroamericana, delle sue atmosfere rarefatte, della sua memoria antica, del suo umorismo diverso, è pure vero che debbo ad un’altra sorta di “rinascimento di Harlem” una conoscenza più completa di questa dimensione d’ebano a suo modo leggiadra. Una conoscenza più completa, forse più reale, più spregiudicata, finanche più umana nel nuovo tratto “leggero” caratterizzante. L’Harlem Renaissance sui generis di cui sto parlando è infatti uno spin-off mediatico di quel movimento culturale padre-nobile citato nell’incipit, sebbene, suo malgrado, abbia potuto proporsi soltanto cinquanta lunghissimi anni dopo. In mezzo c’è stato il Martin Luther King che predicava: «Ho un sogno: che un giorno questa nazione si sollevi e viva pienamente il vero significato del suo credo: “Riteniamo queste verità di per se stesse evidenti: che tutti gli uomini sono stati creati uguali”» e ci sono state copiose lacrime degli “occhi che guardavano Dio” insieme a tanto, tantissimo altro sangue innocente versato.
Entrando nel dettaglio l’Harlem Renaissance sui generis testé teorizzato si è palesato per la prima volta nel 1975, ovvero in coincidenza con l’uscita dell’episodio-pilota della sit-com The Jeffersons (11 stagioni, 253 episodi), vale a dire della prima puntata di quella serie di telefilm americani (interpretata, tra gli altri, da Sherman Hemsley, Isabel Sanford, Marla Gibbs, Paul Benedict, Franklin Cover, Roxie Roker, Zara Cully) che aveva per protagonista una ricca famiglia di colore (con questo statement che era sempre stato un ossimoro fino a quel momento!), trasferitasi a vivere in un esclusivo quartiere bianco. Da quel momento in poi la fortuna della mia Harlem Renaissance sui generis è stata pure notevole e ad oggi non si contano le produzioni televisive con protagonisti attori di colore che l’hanno plasmata fino a renderla funzionale al messaggio originale (prima di allontanarsene nuovamente, si intende!). Da dire vi è però che la serie The Jeffersons è stata senz’altro la produzione di maggior successo, quella che, grazie soprattutto alla sua spregiudicatezza di fondo (basti ricordare la presenza, nella stessa, della prima coppia interrazziale mediatica, cioè quella formata da Tom Willis (Franklin Cover) e Helen Willis (Roxie Roker)), ha in definitiva aperto le porte ad una visione completamente nuova della “negritudine”. E ha saputo presentarla finalmente liberata da ogni complesso di inferiorità.
La notizia di questi giorni è che purtroppo è scomparso Sherman Hemsley. E con il 74enne attore americano è dunque morto lo stesso George Jefferson. Sì, proprio quello delle sette “Lavanderie Jefferson: una vicina a te!”. Quel piccolo commerciante nero, sempre un poco buffo, che grazie al suo “genio” e al suo “talento” era riuscito a lasciare la faticosa Harlem dei suoi avi, ad affrancarsi a suo modo, e se ne era andato a vivere in un lussuoso appartamento di Park Avenue, tra i “visi pallidi” e le “zebre”. Quello a tratti sbruffone, caratterialmente avaro ma che in fondo in fondo aveva un cuore d’oro. Quello innamoratissimo della moglie “Weezie” (Isabel Sanford), ma soprattutto quello delle infinite ed esileranti diatribe con la cameriera Florence Johnston (Marla Gibbs). Ancora, quello mai troppo “politically correct” che non esitava a dare del “bianco” al “bianco” e della “zebra” alla “zebra”, salvo poi dichiararsi il miglior amico di entrambi. Quello che ricco lo era diventato con fatica e ne faceva vanto. Quello che non aveva mai dimenticato le sue umili origini ma non aveva alcuna voglia di tornarsene nei quartieri poveri. Quello che spronava il figlio Lionel a studiare per riuscire, un giorno, a diventare migliore di lui… ben sapendo che un tale risultato sarebbe stato impossibile da ottenersi.
Ne deriva che se due giorni fa con la scomparsa di Sherman Hemsley è morto un uomo, il suo “personaggio” – è proprio il caso di dirlo – in quella stessa occasione è comunque entrato nella leggenda. E nel mito. Quella leggenda e quel mito che a volte riescono a creare finanche gli sconosciuti scriptwriters di una sit-com senza troppe pretese quando davvero ispirati. Quelle leggende e quei miti sempre mai troppo importanti, intellettualmente snobbati (qualunque sia il “colore” che vogliano rappresentare), ma che a loro modo lasciano un segno. Ed insegnano. Insegnano che il razzismo, l’intolleranza, la discriminazione, l’analfabetismo, l’ignoranza sono prima di tutto malattie dell’anima, le quali si possono facilmente sconfiggere con altre risorse dello stesso Essere. Per esempio con la sua capacità rabelesiana di vedere il lato comico, arguto quando non ridicolo delle cose. Di vedere il loro lato leggero. Insegnano, inoltre, che la spregiudicatezza e l’onestà di visione (vedi la pragmaticità di approccio verso le più delicate questioni razziali in George Jefferson) alla fine pagano e sono armi ben più potenti di quelle criminali. Finanche di quelle intellettuali più impegnate. E cambiano il mondo.
Di sicuro, nel suo piccolo, il mondo intorno a noi lo ha cambiato pure il commerciante sbruffone magistralmente interpretato da Sherman Hemsley. Anzi, a ben guardare il suo “sogno” di nouveaux-riche non era troppo diverso da quello di Martin Luther King: “Sì, è vero, io stesso sono vittima di sogni svaniti, di speranze rovinate, ma nonostante tutto voglio concludere dicendo che ho ancora dei sogni, perché so che nella vita non bisogna mai cedere. Se perdete la speranza, perdete anche quella vitalità che rende degna la vita, quel coraggio di essere voi stessi, quella forza che vi fa continuare nonostante tutto. Ecco perché io ho ancora un sogno...”. Per tutto questo e per il ricordo di godibilissime ore in un meraviglioso tempo passato… long live George Jefferson!
Featured image Sherman Hemsley, Isabel Sanford and Mike Evans as the Jeffersons; George, Louise and Lionel (1974), fonte Wikipedia.