«No, I could live in a walnut shell and feel like the king of the universe. The real problem is that I have bad dreams» W. Shakespeare, Hamlet, Act II, Scene II
Potrei essere più felice persino se vivessi in un guscio di noce, diceva un certo principe danese che Shakespeare ha posto sul palco, solo, con la propria crisi, ma prigioniero di un consesso spietato e di un contesto ambiguo.
Tutto il mondo è una prigione e prigionieri siamo noi condizionati più che dai pre-giudizi, dagli stereotipi culturali e comportamentali: dal solipsismo al razzismo, spesso si rischia che il nostro vivere tra e con gli altri segua le mode dettate dagli isterismi e dalle ciniche prese di posizione nei confronti della vita stessa.
Quando Alessandro Grande scrive e dirige “In my prison“ pare proprio tenga presente lo stato di cattività collettiva del nostro tempo.
Il regista colloca il suo protagonista in un ambiente asfittico – nella prigione prevalgono i toni terrosi che vanno da un marrone saturo ad un ocra bruciato -.
Ma il protagonista – ottima prova di Francesco Palozzi che riesce a giocare sul turbamento del suo personaggio concorrendo alla costruzione di una trappola per lo spettatore decisamente riuscita – non è un principe di Danimarca: è “soltanto” un uomo in prigione il cui volto si fa disarmonico e si carica dei segni dell’angoscia collettiva perché la stretta cella rimbomba e amplifica i lamenti degli altri prigionieri. Lamenti in lingue irriconoscibili: nessun lemma è comprensibile e Grande sfrutta con intelligenza questo dettaglio, accompagnando lo spettatore a scoprire a poco a poco che la lingua universale delle prigioni è quella della sofferenza.
Quale sia la colpa del prigioniero non è importante: conta, invece, che in questa catabasi – ripresa dal regista con soggettive frequenti e movimenti di macchina razionali – il ritmo serrato della rappresentazione finisca per spezzare lo stereotipo e spiazzare lo spettatore.
Molto attento a sviluppare la tensione narrativa, Alessandro Grande fa di questa sua breve discesa tra i muri pieni di crepe e i soffitti bassi, un sospiro leggero e carico di significato: le coreografiche entrate in scena dei guardiani collidono visivamente con i volti sofferenti dei prigionieri e la messinscena è in partenza disvelata.
Nessuna prigione potrà mai fermare il desiderio di libertà di un uomo, perché la volontà di pensiero non può essere incatenata. Questa consapevolezza viene trattata da Grande con audacia e senza troppa retorica e con estrema schiettezza: il regista sceglie una fotografia pulita – a tratti impietosa – ed una musica raffinata. Merito del regista è di avere saputo trattare con delicatezza non scontata e rapidità – il racconto si conclude in soli sei minuti – un tema spesso utilizzato per scopi decisamente demagogici.
Il cortometraggio è stato realizzato grazie al sostegno di Provincia di Roma e Roma Fiction Fest, per una coproduzione Gem Produzioni e Linea Spettacolo.
Cortometraggio italiano vincitore del Premio del Pubblico a Tokyo, “In My prison” è vincitore, tra gli altri, del Best Cinematography Award e del Best Original Music al Dieci Minuti Film Festival [Gennaio 2011], dell’Honorable Mention al Solofra Film Festival [Marzo 2011], del Best Editing al Kalat Nissa Film Festival [Maggio 2011] e dell’Award Officine Calabresi al Epizephiry International Film Festival [Luglio 2011].
Proiettato per la prima volta al Roma Fiction Fest il 5 luglio 2010, il cortometraggio ha ricevuto ampio consenso di critica e di pubblico.
Written by Irene Gianeselli
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