Bonifazzi soffrirebbe di «strabismo legislativo», secondo un suo collega – strabico davvero – che non vuol nemmeno sentire il nome di Santenocito; Bonifazzi gli risponde invece che lui ha «lo zelo eccessivo di chi ha scarsa indipendenza morale», mentre il palazzo di giustizia crolla (non solo metaforicamente) «sotto il peso delle troppe cause arretrate»: in queste battute si può riassumere il senso del film e si può cogliere cosa davvero lo lega al presente, ancor prima che al periodo della sua uscita. Nel 1971 questo film poteva forse apparire troppo crudele avanguardistico, distopico, vaneggiante, ma adesso sarebbe semplicemente un documentario – e neppure troppo ironico. Non perché fotografi fedelmente l’andamento di una vicenda, perché riproponga gli stessi protagonisti nelle stesse situazioni, il che sarebbe anche possibile; soprattutto perché, invece, succede il contrario di quello che è la norma odierna ma il contesto e le parole degli attori sociali si assomigliano troppo. Eccone un saggio. «Io amo il linguaggio aderenziale e desemplicizzato» afferma Santenocito, mentre sproloquia in termini tecnici per provare a intimorire Bonifazzi che lo interroga: sembra di risentire Roberto Maroni al microfono di un giornalista. «Lei mi odia a livello ideologico, lei è prevenuto contro di me», o ancora «lei non è un buon giudice», oppure «Non fu un compenso, fu un regalo», dice sempre Santenocito questa volta sul pagamento di una prestazione sessuale. La serie potrebbe continuare: «Lei mi vuole colpire per tutto ciò che io ho commesso prima, non per questo affare in cui io sono innocente», «Se lei fosse delle mie stesse idee politiche avrebbe trovato le prove della mia innocenza». Com’è possibile non scorgere un anticipo così calzante della sfacciataggine dei politici a noi contemporanei, incarnata nel suo ideale più basso e viscido da Silvio Berlusconi e dal berlusconismo – senza che questo voglia riferirsi solo alla politica di destra, visto che personaggi come questi non si avvicinano nemmeno al campo semantico delle parole “politica” e “destra”?
La caratterizzazione dei personaggi, proprio in virtù di questa somiglianza involontaria, è fin troppo efficace: sono le loro azioni e pulsioni, i loro obiettivi che fanno progredire necessariamente la trama. Non c’è alcuna forzatura nel colorire i loro atteggiamenti, ma solo un’accurata indagine sociale che da sempre è presente nei film di Age e Scarpelli, unita alla virulenza che contraddistingue le satire di Dino Risi. I dialoghi sono espliciti o allusivi, a seconda di quanto meglio possa essere espressa la situazione, e il piacere di ascoltarli – o la disperazione nel riascoltarli – deriva anche dal potersi indignare insieme, dal triste constatare che nulla sembra essere cambiato nel modo di vivere la politica, i privilegi. Ecco perché è difficile non fraternizzare col giudice Bonifazzi nel momento in cui distrugge la prova dell’innocenza di Santenocito, riuscendo finalmente a incastrarlo; innocente sì per l’omicidio di cui era accusato, ma colpevole di tanto altro. Ed ecco perché risuonano ancora più grotteschi i suoi proclami d’innocenza: perché sono sinceri, una volta su mille. Ma neppure la certezza di essere innocente gli aveva impedito di fabbricarsi comunque un falso alibi. Deformazione professionale.
Archiviato in:Cinema Italiano, Commedie, Recensioni Film, Uncategorized Tagged: age scarpelli, blog cinema, cinemastino, critica cinematografica, Dino Risi, Gassman, In nome del popolo italiano, recensioni film, Tognazzi