Edito da Rubbettino Editore nella collana Cinema. Lo schermo e la storia, il libro In nome della legge. La giustizia nel cinema italiano (2013) presenta, in forma di saggio, un’attenta analisi che trova il suo punto di partenza nella domanda posta da Guido Vitiello, curatore del volume, se sia possibile individuare nella filmografia italiana l’esistenza di un genere courtroom drama sulla scia del cinema americano, un format riproducibile ed adattabile alle diverse sceneggiature, nella ricorrenza ben precisa di ruoli, stili ed iconografia, che metta al centro della narrazione quanto si svolge all’interno dei tribunali.
Nelle pagine successive all’introduzione vengono fornite al riguardo diverse risposte, anche da altri autori (Giovanni Damele, Andrea Perrgolari, Andrea Minuz, Anton Giulio Mancino, Giovambattista Fatelli, Isabella Pezzini, Milly Buonanno, Christian Ruggiero e Alessandro Perissinotto), analizzando una serie di pellicole, sino ad arrivare a scandagliare il mondo del piccolo schermo, tra fiction, processi televisivi e criminality show imbastiti intorno ai casi di cronaca nera, offrendo validi spunti di riflessione, che vanno al di là dei film esaminati, acquisendo valore d’approfondimento storico- sociologico.
Proprio da quest’ultimo occorre infatti necessariamente partire, perché il nostro processo, legato alla tradizione inquisitoria (per quanto in forma “mista”, dopo la riforma dell’89), ha un funzionamento difficile da rendere come “spettacolo”, già in fase di sceneggiatura. Il sistema accusatorio proprio dei paesi anglosassoni, ben si presta invece ad un’alta resa drammaturgica, mettendo in scena il classico scontro bene/male, con due parti, rappresentate dai rispettivi avvocati, che lottano per stabilire la loro versione individuale dei fatti, rafforzata in base ai diversi punti di vista legali e alla giurisprudenza consuetudinaria (“i precedenti”), la quale aggiunge un surplus narrativo.
Da non dimenticare poi, l’eventuale possibilità di una condanna a morte dell’imputato, spesso giocata sul filo della suspense, i ruoli del giudice come arbitro, dell’avvocato “eroe” nel difendere la vita del suo assistito ed infine della giuria, che si pone allo stesso livello dello spettatore cinematografico riguardo le emozioni espresse su quanto sta avvenendo in aula (La parola ai giurati, Twelve Angry Men, ’57, Sidney Lumet). Passando dai Codici al grande schermo, per spiegare come lo scarso interesse del nostro cinema alle vicende giudiziarie non sia semplicemente legato ad un fattore di procedura dalla difficile resa scenica, ecco in esame titoli come In nome della legge (Pietro Germi, ’49), film ritenuto il simbolo dell’inaugurazione del filone giudiziario nell’Italia postbellica.
Stilisticamente e visivamente appare strutturato come un classico western, rivisitato sulla base della location siciliana, ma l’eroe giunto in un territorio di frontiera non riesce a soverchiare le antiche consuetudini ed imporre la legge.
Quest’ultima viene vista come un intralcio, un apporto burocratico “importato” dal rappresentante dello Stato centrale, il pretore Guido Schiavi (Massimo Girotti), il quale riuscirà ad applicarla solo nella forma di un patto col suddetto sistema consuetudinario e per di più non nel luogo deputato, ma sulla pubblica piazza, dove nel finale chiamerà a raccolta tutti i cittadini, una volta che gli uomini di Turi Passalacqua (Charles Vanel) hanno fatto fuori un ragazzino che aveva collaborato con lui. Anche analizzando il genere commedia, da Imputato, alzatevi! (Mario Mattoli, ’39) all’episodio Il processo di Frine del film Tempi Nostri (Alessandro Blasetti, ’54), passando per Un giorno in pretura (Steno, ’53), si evidenzia, oltre alla mancanza di quella tensione narrativa propria di analoghi modelli hollywoodiani, come il rigore del processo venga scardinato dal disincanto e dal sarcasmo dei personaggi (più degli avvocati difensori e pm che degli imputati), capaci d’affossare con un semplice gesto o una battuta l’intangibilità delle istituzioni (l’assoluzione dell’imputata per essere “maggiorata fisica” nel citato Il processo di Frine). D’altronde queste ultime sono messe in discussione anche in titoli successivi della nostra commedia, quando si connota di toni amari e disillusi, disattesa la speranza di un sistema migliore, di vita e delle sue regole. Emblematici al riguardo Detenuto in attesa di giudizio (Nanny Loy, ’71) e, soprattutto, In nome del popolo italiano (Dini Risi, ‘71), dove le procedure giudiziarie divengono atto d’accusa contro la società e, nel secondo, un’allegoria dal sapore quasi “profetico” (il giudice Bonifazi/Ugo Tognazzi elimina le prove che scagionerebbero l’imprenditore Santenocito/Vittorio Gassman dall’accusa d’omicidio, perché rappresenta tutti i mali in cui versa il paese). Il film di Risi si fa portatore di un’ideologia che appare disponibile, come sottolinea Minuz, “tanto a rovinose derive totalitarie quanto alle seduzioni degli eccessi egualitari”, in un contesto storico dove si assiste progressivamente al venir meno della politica e di quell’’apparato ideologico su cui aveva posto le fondamenta. D’altronde è quanto si evidenzia, in un clima di radicale d indisciplinato cambiamento socio economico e culturale, anche nel vituperato genere “poliziottesco”, che tra forzature spettacolari e facili espedienti retorici volti alla popolarità, faceva intravedere la desolazione morale del periodo, anche se al riguardo maggiore lucidità è riscontrabile nel fervido idealismo del cinema d’impegno civile proprio, tra gli altri, di Damiano Damiani, recentemente scomparso. La sua poetica ed estetica cinematografica, nascosta tra le pieghe del genere e della fluidità narrativa, è stata capace di far notare ogni involuzione del contesto storico italiano, dal fenomeno mafioso ai rapporti tra criminalità organizzata e politica. Ciò che risalta in questo saggio è che, a vent’anni da “mani pulite”, e considerando la realtà attuale, i nostri registi e sceneggiatori hanno colto in particolar modo l’aspetto del tutto paradossale della legge e la sua drammaticità reale, quotidiana, più che procedurale. Rendo quindi mie le parole di Vitiello nel concludere: “anche di fronte ad un delitto di cui si conosce il responsabile, le complicità dirette o indirette sono sempre tante e tali da far supporre che l’unica salvezza verrebbe ad essere rappresentata dallo scegliere fra assolvere o incolpare tutti.
Una curiosa illusione ottica, per cui sotto la luce della legge molti comportamenti comuni possono definirsi criminali, quando la luce si fa fioca o si spegne gli stessi comportamenti sembrano delineare un sistema di relazioni a suo modo funzionante, se non propriamente civile”.
In questa rappresentazione il cinema italiano, nella sua caratteristica capacità d’intuire gli eventi, non sempre esplicata validamente nel raccontarli una volta avvenuti, è stato in grado, con modalità diverse, di raffigurare un dramma, senza attenuante alcuna.