In or out? La Scozia decide il suo futuro

Creato il 18 settembre 2014 da Bloglobal @bloglobal_opi

di Federica Castellana

Il 18 settembre oltre 4 milioni di elettori scozzesi sono chiamati alle urne per scegliere se diventare o meno uno Stato indipendente, abbandonando così il Regno Unito dopo più di tre secoli di unione. Previsto dall’Edinburgh Agreement del 2012 – documento programmatico di 30 punti siglato dal Premier britannico David Cameron e dall’omologo Alex Salmond con lo scopo di definire una road map che proseguisse sulla strada dell’indipendenza tracciata dallo Scotland Act del 1998 e dal progetto di devolution introdotto nel 1999 da Tony Blair con la creazione di un Parlamento regionale scozzese –, lo storico referendum potrebbe rappresentare un punto di approdo per le aspirazioni indipendentiste scozzesi. Istanze che non si inscrivono solamente nella storia recente – e che certamente non si basano su fattori etnici, religiosi o culturali –, ma che affondano le radici nelle rivendicazioni autonomiste sorte dopo le invasioni dell’Inghilterra in epoca medievale, sugellate dall’unione con quest’ultima nel 1707 (Act of Union) e alimentate dall’aver mantenuto intatte le proprie strutture di governo, dalla suddetta devoluzione dei poteri e dal divario economico.

Forte della maggioranza assoluta all’interno del Parlamento unicamerale, lo Scottish National Party (SNP) del Premier Salmond – alla guida del movimento indipendentista Yes Scotland [1] – è stato dunque il principale promotore della consultazione elettorale.Il laburista Alistair Darling, deputato scozzese a Westminster, è stato invece designato dai maggiori partiti britannici come leader del fronte unionista Better Together [2], difensore dei legami storici, politici, economici, emotivi e culturali tra Scozia e Regno Unito.

La campagna elettorale si è basata soprattutto su endorsement di vario tipo a favore di entrambi gli schieramenti. Da un lato gli scontati richiami all’unità da parte della stessa Regina Elisabetta, diCameron e dei suoi predecessori – entrambi di origini scozzesi – Gordon Brown e Tony Blair. A questi si sono aggiunti gli appelli del Fondo Monetario Internazionale, delle maggiori testate britanniche (Financial Times e The Economist in primo piano) e dei grandi manager della City di Londra. Non solo: è arrivato anche il supporto del movimento Let’s Stay Together. Circa 200 famosi connazionali del mondo accademico, della musica, dello sport e dell’intrattenimento, pur riconoscendo il diritto degli elettori scozzesi a decidere il proprio futuro, hanno evidenziato l’importanza del ruolo collettivo del Regno Unito (. Meno celebrities ma altrettanta determinazione nell’agguerrito fronte indipendentista, capace di convogliare orgoglio nazionale, nostalgia e l’avversione degli scozzesi verso il governo conservatore di Londra [3]. Inoltre, in termini di proposte programmatiche il Primo Ministro Salmond è risultato più convincente del rivale Darling durante il confronto del 25 agosto [4]. Al di là dell’indubbia componente di identità nazionale, infatti, gran parte del dibattito si è incentrato senza sorprese su questioni concrete relative alla dimensione territoriale, demografica ed economica della Scozia in rapporto al Regno Unito.

Il divario di preferenze tra i due schieramenti si è progressivamente ridotto nelle ultime settimane, con il sorpasso – per la prima volta – dei separatisti. Secondo il sondaggio condotto da YouGov per il Sunday Times, il 51% dell’elettorato scozzese sarebbe favorevole all’indipendenza dal Regno Unito (e quindi voterebbe SI) contro il 49% dei contrari (che voterebbero NO) [5]. A fine agosto il fronte del SI era solo al 39%. Il testa a testa è proseguito fino alle ultime ore e continuerà presumibilmente fino alla comunicazione dei risultati officiali; restano comunque due grandi incognite, l’affluenza e gli indecisi (stimati in circa il 2% dei votanti).

I due scenari possibili Qualora dovesse vincere il SIla Scozia diventerebbe un nuovo Stato indipendente a partire dal 24 marzo 2016, con una configurazione istituzionale simile a quella di Canada, Australia e Nuova Zelanda: monarchia parlamentare e membro del Commonwealth (la regina Elisabetta conserverebbe quindi il ruolo di capo di Stato, rappresentata da un Governatore Generale). I 18 mesi previsti per definire le condizioni del “divorzio” sarebbero caratterizzati da lunghi negoziati tra Edimburgo e Londra, in particolare su alcune questioni:

  • Divisione e controllo degli assets economici: riserve energetiche (gas e petrolio) del Mare del Nord, quota del debito pubblico, comparti essenziali come pesca, turismo e alimentare (whiskey) rivendicati dalla Scozia;
  • Moneta: la proposta scozzese di una currency union con la sterlina britannica è fortemente osteggiata negli ambienti britannici e porterebbe comunque alla perdita di ogni influenza all’interno della Bank of England. Intanto diversi istituti bancari e finanziari scozzesi hanno già annunciato che trasferirebbero la propria sede legale a Londra [6];
  • Organizzazioni internazionali (UE, ONU, NATO): l’adesione automatica sembra improbabile ed Edimburgo dovrebbe intraprendere nuovi processi di rinegoziazione della membership e degli accordi;
  • Difesa e sicurezza: la Scozia intende rimuovere l’intero arsenale nucleare dal proprio territorio e riallocare i sottomarini britannici presso le basi in Galles;
  • Confini e politiche migratorie: possibile adesione della Scozia alla Common Travel Area già esistente tra Regno Unito e Repubblica d’Irlanda e incentivi all’immigrazione in contrasto con le decisioni del governo britannico;

nonché in tema di religione (rapporti tra Church of England e Church of Scotland) e di simboli prettamente nazionali (bandiera, inno).

Se dovesse vincere il no la Scozia resterebbe parte del Regno Unito, che tuttavia concederebbe quasi sicuramente ulteriori margini di autonomia, in un nuovo contesto di partnership al posto dell’attuale appartenenza vera e propria.A pochi giorni dal referendum i tre grandi partiti britannici (conservatori, laburisti e lib-dem) si sono infatti impegnati a trasferire nuovi e più ampi poteri alla Scozia in materia di tassazione, spesa pubblica e welfare in caso di vittoria del NO [7]. Una soluzione di compromesso chiamata “Devo max” (maximum devolution), che rafforzerebbe ancora di più il Parlamento e l’esecutivo scozzesi evitando però i rischi di una separazione totale dal Regno Unito: la dipendenza economica dal Mare del Nord, l’instabilità monetaria e finanziaria, l’isolamento internazionale e militare.

Un evento significativo A prescindere dal risultato finale delle urne, che in un modo o nell’altro modificherà lo status quo nell’isola britannica, resta il rilievo indiscutibile di questo appuntamento elettorale a livello sia nazionale sia internazionale.

Anzitutto per il Regno Unito, che in entrambi i casi vedrebbe ulteriormente ridimensionata la propria unità nazionale. La perdita – totale o parziale – della Scozia potrebbe rappresentare un colpo non indifferente per la solidità (territoriale, politica, economica, monetaria, energetica) del Paese, che vedrebbe messi in discussione il suo peso e la sua immagine all’interno dei principali consessi internazionali con buona pace dell’eredità del British Empire.

Va poi sottolineato l’impatto esterno di questo referendum, quell’“effetto contagio” che potrebbe avere su movimenti fratelli in altri Paesi che puntano all’autonomia se non al distacco vero e proprio. Tra tutti, l’esempio più vicino (geograficamente e cronologicamente) è decisamente la Catalogna. Lo scorso 11 settembre migliaia di catalani hanno sfilato per le strade di Barcellona a sostegno del referendum pro-indipendenza indetto dalla Comunidad spagnola per il 9 novembre e che Madrid ha già dichiarato illegale. Aspirazioni separatiste sono presenti del resto in tutta Europa (dai Paesi Baschi all’Europa balcanica ed Orientale, dalla Scandinavia alla Sardegna e alla Corsica) e non solo: in Québec gli indipendentisti continuano a sfidare il governo centrale canadese proponendo regolarmente nuovi referendum per la scissione, nonostante le sconfitte del 1980 e 1995.

In questo contesto emerge quindi uno dei paradossi più interessanti della globalizzazione. Dopo decenni contraddistinti da variegati processi di aggregazione internazionale (a livello sia globale che regionale), si assiste ora alla tendenza inversa: la disaggregazione a livello locale con la conseguente crisi dello Stato nazionale, diviso tra spinte verso l’alto (organizzazioni sovranazionali) e verso il basso (decentramento e movimenti indipendentisti). Un ulteriore aspetto di quel contrasto global vs. local che sta caratterizzando il nuovo Secolo.

* Federica Castellana è Dottoressa in Relazioni Internazionali (Università di Bari)

[1] http://www.yesscotland.net/

[2] http://www.bettertogether.net/

[3] Tom Devine, How history turned against Tory-voting Scotland, in “The Guardian”, September 14, 2014.

[4] Severine Carrell and Libby Brooks, Scottish independence: Salmond scores victory over Darling in fractious debate, in “The Guardian”, August 26, 2014. 

[5] Tom Shipman and Jason Allardyce, Yes leads in Scots poll shock, in “The Sunday Times”, September 7, 2014.

[6] Nicol Degl’Innocenti, Le banche scozzesi: in caso di indipendenza, traslochiamo a Londra. Fmi: da un sì «incertezza e volatilità», su “Il Sole 24 Ore”, 11 Settembre 2014. 

[7] Steven Erlanger, Britain Pledges More Self-Rule for Scots if They Reject Scottish Independence, in “International New York Times”, September 7, 2014.

Photo credits: Jeff J. Mitchell/Getty Images


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