Paola Pluchino. Sbirciando sotto il tappeto dello scintillante parterre della cultura dell’arte, facendo attenzione a non far scivolare le gentil dame con tacchi a spillo e abiti in lotta con la gravità (spesso anche col buon costume) si scopre una realtà mediocre, molto rumore per nulla e soprattutto l’appiattimento dell’arte al mero movimento del capitale. Ciò che colpisce maggiormente, e quando dico colpisce intendo ciò che ferisce e umilia il mondo della critica risoluta, è l’osservazione del generale clima di disfacimento e terrorismo lavorativo, che infetta l’entusiasmo e spesso non permette di credere e progettare.
Nella fattispecie, allontanando l’ipotesi di voler essere onnicomprensivi e di parlare per (superficiali e inconcludenti) massimi sistemi, sotto l’aura magnifica dell’arte contemporanea, si intravede un generale clima di chiusura e confusione, che richiama molto l’idea guerresca del serrare i ranghi , producendo non un riciclo creativo dell’esistente ma solo nuove combinazioni di pedine ormai logore, sulla scacchiera grigia e senza fervore di giocatori che sembrano costretti a muovere. Il risultato triste e malsano, fortunatamente conditi da contrappunti indipendenti, scopre il grottesco mondo della presentazione di ciò che esiste, senza sperimentare o azzardare il nuovo.
Accanto a queste considerazioni generali, che richiamano fasti ottocenteschi ormai in ampio declino (sia sotto un profilo estetico che più specificamente culturale ed intellettuale), si sta facendo strada un contro movimento, una cultura prospettica di generazioni fresche e interessanti, piene di nuove idee e di voglia di fare.
Con felicità si scopre che il tappeto in questione ha un doppio fondo, all’interno del quale stanno spingendo forti i nuovi germogli che adottano, nella loro percezione del mondo arte, altri criteri di elevazione del bello, altri cardini di discernimento tra valori.
Una cultura della cooperazione che produce risultati inaspettati, proprio nel verso di quali siano i gusti dei nuovi, soprattutto, da dignità a tanti giovani studiosi.
Le idee sono il capitale del futuro, il coraggio, la preparazione, la perseveranza e il gusto per la sfida sono gli ingranaggi che questa generazione dovrebbe mostrare al pubblico, facendo aprire gli occhi agli ormai obsoleti scettri del potere, che noi siamo un valore, oltre ad essere l’unico antidoto per una società che più si corrompe più si sfalda.
Queste mie parole, che richiamano le antiche leggi della retorica come creatrice dell’evento vogliono essere la pelle protettiva per queste risolute ed ingegnose penne, per questi cavalieri dell’arte che hanno il diritto di trovare spazio, che hanno le capacità per farsi riconoscere e promuovere nel mondo del lavoro.
E non conta l’abito o la veste mostrata, perché la bellezza che indossano è la virtù che questi portano in seno, il rigore nella ricerca, nello studio, nelle notizie che raccolgono e seminano.
Utopia si dirà, soldi non ce ne sono, ed è probabile che questa situazione durerà anni. Come adesso mai, nemmeno in periodo post bellico. Perdonate l’ironia, ma a stare a piangermi addosso io non ci sto, e come me le firme qui presenti. Il nostro valore è questo e paga lo scotto dell’indipendenza e della libertà.