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Autore davvero unico, geniale e imprevedibile, Enzo Jannacci ci lascia un’opera assai variegata e dai tratti surreali, sospesa tra dramma quotidiano, paradosso esistenziale ed umorismo grottesco ai limiti dell’assurdo, talvolta di stampo quasi beckettiano (ricordiamo il suo Aspettando Godot, diretto e recitato insieme a Giorgio Gaber nel 1990). Un’opera volutamente stralunata, indefinibile, ma anche profondamente etica e sociale, attenta alla condizione degli ultimi, degli emarginati e degli esclusi. Si pensi al capolavoro El purtava i scarp del tennis, oppure a Vengo anch’io, no tu no, per citare due delle canzoni più note e popolari.
Jannacci ha voluto sempre cantare i vinti, gli sconfitti dalla storia, i senza voce, i disperati che a volte nemmeno si rendono conto di esserlo, frastornati da una società falsa e babelica, capovolta, in cui i veri valori non esistono più. Un’opera, la sua, che spazia dalla canzone al cabaret e al teatro, con punte totalmente drammatiche oppure tragicamente divertenti, che certo deve molto - almeno inizialmente - alla lezione di Dario Fo, che di Jannacci è stato maestro e coautore di diversi brani.
In Enzo Jannacci sorprendeva la capacità linguistica e poetica dell’ossimoro, la costruzione di testi in cui ironia, disperazione e pietà riuscivano a fondersi in modo non artificioso. Pensiamo a quella sua straordinaria attitudine ad unire dialetto e lingua italiana, espressioni gergali e popolari a metafore letterarie per nulla scontate, che apparivano nei testi come lampi improvvisi. Creatore di invenzioni linguistiche, dunque, ma anche di personaggi indimenticabili ed estremi come l’Armando, Giovanni telegrafista, Soldato Nencini, Vincenzina, Veronica.
Spesso dai testi emergeva un pessimismo senza scampo, una profonda disillusione nei confronti di un’esistenza incomprensibile, segnata irrimediabilmente dall’emarginazione sociale e dal nulla, da una solitudine senza riscatto. Ed anche l'amore era sovente una meta irraggiungibile, un sogno irrealizzabile, qualcosa che si desidera ma che si nega senza una vera ragione.Basti risentire alcuni brani davvero eccezionali e poco noti come Niente, Il duomo di Milano, Domenica 24 marzo, Sfiorisci bel fiore, La mia gente, Il panettiere, Gli zingari per comprendere la drammaticità assoluta che viene rappresentata.Gli zingari, in particolare, è una canzone davvero struggente ed esemplare, un capolavoro assoluto di linguaggio, di parole ed immagini intrise di pianto e di disperazione, una sorta di canto finale, in cui la presenza del mare è testimonianza straziante delle atrocità della storia nei confronti di tutte le vittime, i diversi, gli estranei, i senza patria, i perseguitati, gli erranti di sempre.
Con Enzo Jannacci, amico fraterno di Giorgio Gaber, se ne va davvero un mondo, che sappiamo non tornerà più. Ci resta, per fortuna, la sua opera e noi non dobbiamo dimenticarla.
Mauro Germani
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