di Giorgio Galli
“In sala d’attesa”
Foto tratta da Wikipedia (v. sotto)
“Se questi muri potessero parlare”, dicono gli umani tante volte, in genere riferendosi a camere da letto dove sembrano aver consumato – o si vantano d’aver consumato, o alludono all’aver consumato – memorabili gesta amatorie. Oppure riferendosi a cucine, sale da pranzo, stanze di studenti che potrebbero aver ospitato memorabili ciucche. Ma della sala d’attesa di un medico, diciamolo pure: chi se ne frega? Cos’ha da ricordare la sala d’attesa di un medico? Al massimo, i cambi di nome: prima qui c’era un medico cosiddetto della mutua; poi il medico è rimasto lo stesso, ma si chiamava medico di famiglia; poi il medico è rimasto sempre lo stesso, ma è diventato un medico di base. La vecchia Mutua è diventata Unità Sanitaria Locale; poi hanno scoperto che la parola “azienda” fa più fico, e l’hanno opportunamente ribattezzata Azienda Sanitaria Locale.
Qui, però, oltre al nome, a un certo punto è cambiato anche il medico. Il dottor Vasapollo, infatti, due anni fa, si è tolto la vita, come si suol dire, per una delusione amorosa. È successo infatti che sua moglie, dopo ventitré anni di matrimonio e due figli, aveva scoperto ch’è più fico un buttafuori di discoteca che un camice bianco. E il dottor Vasapollo, che aveva sempre usato la sua conoscenza dei farmaci per salvare vite altrui, decise che quella volta se ne sarebbe servito per mettere fine alla propria: e pose fine ai suoi giorni, come si suol dire, “per una depressione psichica“; o, come pure fu detto, “per motivi sentimentali”.
Il dottor Formiconi, che ha preso il suo posto, per prima cosa ha sostituito i settimanali che il dottor Vasapollo aveva messo a disposizione dei pazienti con delle riviste di gossip, più conformi al gusto attuale dei pazienti. E in effetti, quelle riviste riscuotono più successo dei settimanali del dottor Vasapollo. Risultano meno deprimenti – benché i pazienti siano sempre gli stessi.
Una volta, però, mi ha colpito la faccia assorta e malinconica di un giovane che leggeva Il soccombente di Thomas Bernhard. L’ho rivisto altre volte, sempre più malinconico e assorto, poi sfatto e gonfio, infine spento, imbruttito, invecchiato, e persino con qualche capello bianco, il tutto in meno di due anni. L’ultima volta non leggeva alcun libro. S’è lanciato nel vuoto alcuni giorni dopo, perché – poi si è venuto a sapere – da due anni non trovava alcun lavoro. Anche lui ha posto fine ai suoi giorni, come si suol dire; “per una depressione psichica”, come fu detto. Con molta saggezza, un altro paziente lo ha definito “una delle tante vittime della crisi”.
Ma, tornando all’argomento iniziale, devo ammettere che sì, alcuni pazienti, fra queste mura, si sono vantati con altri pazienti d’aver consumato, o hanno alluso all’aver consumato memorabili gesta amatorie in certe camere, quelle di cui si dice “Se questi muri potessero parlare”. Ma è molto più frequente il caso opposto: quello di due signore che si lamentavano l’una con l’altra dell’assoluta esizialità delle prestazioni sessuali dei rispettivi mariti; o dei vecchietti che si lagnano l’un coll’altro della cistifellea, o, in termini ancora più espliciti, di un alvo cattivo. Ma ho l’impressione che negli ultimi anni il numero delle interazioni umane tra queste mura, nonché la loro durata, intensità e frequenza, sia diminuito. I pazienti sembrano concentrati sul loro mondo interiore, e sono fra di loro più irascibili. Sfuggono a questa regola i cosiddetti nativi digitali, i quali, da che sono entrati qui la prima volta, hanno sempre tenuto la faccia affondata nei tablet, isolandosi in tal modo sia dai fastidi di un troppo stretto contatto col proprio mondo interiore, sia da quelli che qualsiasi commercio con gli altri esseri umani inevitabilmente procura.
Se devo dire però qual è il caso umano che più m’ha colpito, mi permetto di segnalare un certo signor Gentile, un impiegato cinquantenne che il dottor Formiconi aveva invitato -era il quindici di aprile del 2012 – ad affrontare con urgenza certi esami radiologici, e che aveva risposto al dottore di preferire aspettare il ventisette per non rimanere a pancia vuota, poiché il suo conto in banca, a causa delle recenti misure di austerity, s’era venuto a trovare in condizioni tutt’altro che floride; e che quando, il ventinove di aprile, aveva fatto gli esami prescritti, s’era trovato una palla nei polmoni troppo grande per essere curata, e della quale, un mese dopo, era schiattato.
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(I nomi e i fatti narrati nell’articolo sono esclusivamente frutto di fantasia. Ogni riferimento a persone esistenti o a fatti realmente accaduti è puramente casuale)
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