Disconnect, lemma nefasto che facilmente provoca crisi di panico diffuse, perché nell’era digitale, leggere questa parola fa venire davvero i brividi. D’altro canto, quante volte al giorno vi sentite ripetere che eravate irrintracciabili per il solo motivo che non avete replicato prontamente ad un sms? Oppure venite bacchettati perché una email giace da ben un’ora nel vostro mailbox in attesa di risposta?
Il film “Disconnect” si addentra nelle vite di un gruppo di persone comuni, una manciata di soggetti di generazioni diverse, con esigenze e conseguenti pretese dal web differenti. Gli effetti da gestire saranno però tutti negativi pur appartenendo a casistiche uniche: queste vite verranno, infatti, demolite, travolte, dall’impalpabile cyberspazio per mera disattenzione o cattivo uso del mezzo.
Protagonisti sono una coppia vicina all’implosione, una bella famiglia middle-class con due figli adolescenti più o meno ribelli, un orfano di madre con un padre che fa sempre la “cosa giusta”, un ragazzo che se la cava come meglio può e una trentenne travolta dalla carriera. In poche battute emergono la crudeltà degli adolescenti e i limiti di un sistema di regole talmente fitto da ostacolare le persone. Dall’emarginato all’agiato, dal privato al pubblico, è un continuo passare da un punto di vista all’altro che alla fine ci offre una panoramica dell’attuale società, in cui il comun denominatore è la comunicazione virtuale e i suoi riverberi sulla realtà.
Nato per semplificare le cose, per aiutarci nella quotidianità, per sgravarci da abitudini noiose e lente, il world wide web si è oramai intromesso in tutti i momenti della nostra giornata e sta provocando subdoli effetti negativi. Ciò che dovrebbe abbattere le distanze e alleggerirci nelle difficoltà ci sta, invece, rovinando l’esistenza: solitudine dilagante, egoismo imperante, nuovi crimini sempre più diffusi e soprattutto sempre più persone abusano di quel filtro, quello schermo oscurato che ci occulta e ci permette di essere migliori o peggiori (secondo le intenzioni) e che snatura i rapporti umani rendendoci alla fine tutti più vulnerabili.
Questo film, che incredibilmente segna il debutto al lungometraggio del regista Henry-Alex Rubin (a onore del vero già candidato all’Oscar® con il documentario “Murderball”), è una dolce storia tremenda, una dolorosa fotografia del nuovo millennio, che trasuda quella perfezione che solo i grandi budget possono garantire. “Disconnect” è retto dalla recitazione di un cast abile e di richiamo, ma soprattutto è coerente nonostante i principi cari ai figli dello Zio Sam si mostrino in tutto il loro essere talvolta naïve.
Si, un’iniezione di fiducia e speranza c’è, ma non come ci si potrebbe attendere. Non manca neppure l’annosa questione dell’efficacia della giustizia privata; l’umana necessità di trovare un colpevole su cui riversare la propria ira; gli effetti dei genitori assenti sulle vite dei figli; e i nuovi reati informatici, insomma, c’è proprio tutto! Ma l’esposizione è di una tale disarmante semplicità da colpirci senza snervarci, senza impartirci lezioni e senza riversare su di noi un barile di melassa strappalacrime. Insomma, “Disconnect” è semplicemente un bel film drammatico, ben ritmato e saggiamente narrato, che vale il biglietto: voto 7!