Magazine Racconti
Barcollandoattraversai l'atrio arioso, dirigendomi verso la sala dei libri, dovela luce era più soffusa: varcata la soglia le mie pupille sidilatarono, con la coda dell'occhio scorsi lei, al primo piano,attenta alla sua posa drammatica in cui la ringhiera funzionava dasupporto scenico, lì, sotto ad un rettangolo di sole occhio di bue disegnato dauna finestra, per osservarmi passare attraverso l'atrio, attraversoad un piccolo tempo, attraverso alle sue pupille ancora puntute comespilli.Presiposto sulla poltrona che mi spettava, dando le spalle alla finestrapesantemente schermata da polverosi drappi neri, dove avrei dovutoattendere paziente che mi raggiungessero lei, lei e suo padre, perquel colloquio così importante, decisivo per le sorti del nostroamore e che io affrontavo, non senza una certa dose d'incoscienza,dopo avere, lo riconosco, bevuto un bicchiere di troppo e,ammettiamolo, d'averlo colpevolmente bevuto sapendo che sarebbe statodi troppo.Leigiungeva, lo sentivo: i suoi passi li riconosco, li riconosco dasempre, da prima del mondo, potrei dire che la prima volta chel'incontrai, udendo i suoi passi, seppi subito di ricordare tutto dilei, come se le nostre anime fossero state indissolubilmente uniteall'inizio del tempo, e poi, separate, strappate da un big-bang alsapor di cloroformio e riprogrammate dall'introduzione della materia,ci si rincontrasse per caso, sperduti nell'universo, e ci siriconoscesse per quella parte della nostra memoria che il cloroformiostesso aveva salvaguardato, tenendo alcune percezioni ancestraliferme come nella formalina, irraggiungibili dalla riprogrammazione.Lesue pupille si dilatarono, entrò, i suoi passi si fecero piùsilenziosi, più attutito divenne il mio ricordo, i suoi piedi,oltrepassata la soglia, calpestavano ora zittizitti i tappetisfarzosamente disposti con ostentazione su tutta la superficie dellalarga stanza, impregnandola d'un odore che non sentii mai più dopod'allora e che avvertivo per la prima volta, che mi fece pensare allapolvere imprigionata, da millenni, che preme per uscire da/in ognidirezione visibile, pronta a partire alla conquista di quel mondocivilizzato che l'aveva gettata via ripudiandone l'antico, ordinatocompito.Un'altrapoltrona ospitò il corpo quieto ed abbandonato di lei, che fissavo,non ricambiato: il suo sguardo rimaneva sospeso sulla soglia, inattesa, come del resto tutta la sua carne pronta a riattivarsi maindotta ad una tesa sospensione; e con un piccolo sforzo anch'iospostai il mio sguardo verso l'ingresso, sfuggii, prospetticamente,attraverso le porte, pensai al mio corpo caldo, in strada, al sole,libero, non qui, dove io e lei restiamo, prigionieri di colossali,antiche sentinelle di libri, in attesa d'un destino ancora nonscritto.L'immaginedei titoli, con i loro autori, già non troppo nitidi per ladistanza, a causa di quel bicchierino di troppo, ora si distaccavadall'originale ed ai miei occhi si duplicava, fluttuando altrove,galleggiando sospinto su particelle luminose di polvere libera,viaggia su altri libri, si duplica ancora ed ad altre immagini sisovrappone ed ecco vedo La Divina Commedia di Bradbury e L'Arte dellaGuerra di Gandhi ed ecco lo vedo l'idolo della non-violenza bruciarelibri all'inferno, e dietro di lui sfrecciare Bradbury alla guida dischiere bestiali alla riscossa.Poi,ricordo: scricchiolare d'assi, dall'atrio. Sorgere d'un'ombra pingue.Del buio di quell'ombra che veniva a fondersi nel buio ai nostripiedi. Del contemporaneo apparire della figura del corpo del padre,in graduale e definitiva sostituzione di quella effimera dell'ombraormai già svanita. Le pupille del padre che si dilatano. Poi, lostesso corpo flaccido che sparisce quasi completamente in fondo aquella poltrona destinata a quel supplizio, colpevole di chissàquale delitto. Del tentativo di fuga di molte particelle di polveredalle quali, al momento del contatto di tutta quella carne coperta datessuti in fogge eleganti, ho avvertito distinte le gridad'orrore. Del silenzio, poi, immobile, antico. Solido, borghese.Terminatala non elementare operazione d'arricciarsi entrambi i baffimantenendo il naso puntato verso la figlia e lo sguardo obliquosegnato dalle palpebre semi-chiuse verso di me, il Padre,solennemente tese un braccio verso l'infinito spazio di cui erapadrone come lo erano stati i suoi antenati da generazioniinnumerabili, schioccò due dita e le riportò lentamente aimustacchi, momentaneamente rimasti indifesi, ed ecco, che subito, unafigura enorme e silenziosa in maniera soprannaturale feceieraticamente il suo ingresso: il maggiordomo. A cosa vi serve unmaggiordomo? Sappiamo già che il colpevole è la poltrona.Topi.Da qualche parte, qui. Forse sotto all'impiantito. Topi. Li sento.Amanola carta, quelli.Vivonosotto alle assi di legno, poi, di notte, risalgono e si mangiano ilibri. Mantengonointatte le copertine. In un posto come questo, non li scoprirannomai.Leassi di legno ed i libri, tutta opera loro, questa stanza. Loro, deiboscaioli.Liamano, i topi, i boscaioli.Così,Voi, (dice il Padre ed il Voi saremmo Noi, dove Noi sarei Io)vorreste prendere mia figlia come vostra legittima sposa. So che stasogghignando. Il suo petto sussulta in modo innaturale, convulso. Iorispondo confondendomi: Noi, sì, proprio Noi vorremmo sposarci, sì.Il maggiordomo, uscito in precedenza senza che me ne rendessi conto,rientra con un vassoio. E' paradossale. Mi danno del Voi all'ora delTè.Untonfo. No. Di più. Un boato. Alle mie spalle, fuori. Forse instrada, oltre ai drappi, alle finestre, libero.Noici amiamo. Dico questo riflettendo sul fatto che se al Voi io devorispondere col Noi, se non premetto che s'intenda che con Noi intendoIo e Sua figlia, costui penserà che Io amo me stesso. Noi ci amiamo.Lo dico tendendo significativamente la mano verso di lei, abbandonata come una statua dicera mezza squagliata sulla sua poltrona. Il petto del Padre sussultafrenetico. Il maggiordomo gli s'accosta, gli porge un fazzolettospiegato, lo sorregge mentre Quello cola bava marrone sul lindotelino. Ecco, il maggiordomo che lo ripiega ordinatamente, se loripone in tasca con talentuosa naturalezza. Ecco, finalmente il Padrevolta il capo verso di me e mi sorride bonario. I baffi, li vedo,luccicano di saliva. Il sorriso non è bonario, mi correggo. E'beffardo.Sudo.Abbondantemente. I miei pensieri che dovrebbero seguire un percorsointerno, invisibile, dal cervello alla gola alla parola, trasudanofuori dalla mia fronte, invece, davanti a tutti e da lì scivolanocolando fino alla mia bocca dischiusa, annegano nella mia saliva.Sento in gola un sapore salato.Stoper alzarmi, vorrei parlare, ma non ne trovo le forze, cerco ditoccarla, vorrei che Lei dicesse qualcosa e sto per chiamarla quando,proprio in quel mentre, si spalanca la finestra alle mie spalle,irrompe nella stanza un artiglio enorme, una zampa verdastra laghermisce, la porta via nell'irreale, nuovo silenzio. Mi alzo discatto, potendo soltanto constatare che un enorme drago sta fuggendolontano, in cielo, ardendo l'orizzonte, che s'arrossa in uninnaturale, mostruoso tramonto, tenendosi stretta la sua preda, ladonna che amo, sbuffando fuoco che brucia rossi tetti laggiù, inperiferia.E'una cosa che bisogna sempre mettere in conto, dice il Padre.Ma...mio Dio! Quando avranno fine questi abominevoli rapimenti?
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