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“In territorio nemico” e la dissipatio Scriptoris Generis: una recensione

Creato il 20 novembre 2013 da Criticaimpura @CriticaImpura
Scrittura Industriale Collettiva,

Scrittura Industriale Collettiva, “In territorio nemico”, Minimum Fax 2013

Di SONIA CAPOROSSI

In territorio nemico (Minimum Fax, 2013), romanzo collettivo redatto col metodo SIC – Scrittura Industriale Collettiva e “scritto a 230 mani” l’ho ricevuto nella cassetta della posta a maggio, eppure, prima di poterne scrivere, ho dovuto un poco sedimentare le mie riflessioni critiche. Mi è stato necessario riflettere, soppesare, vagliare attentamente molteplici possibilità ermeneutiche, perché l’impianto narrativo, l’intenzione operativa e l’esito estetico mi hanno dato parecchio da pensare e il senso stesso del romanzo mi sembrava vivere come sul discrimine sottile di un’ambiguità, a rischio perenne di cadere nel malinteso. Ad occhi poco attenti sembrerebbe infatti appartenere, senz’ulteriore necessaria definizione, al filone resistenziale del neorealismo settant’anni dopo, e l’inganno sorge perché al suo interno si dipanano, ognuno collegato ad uno dei protagonisti, tre protoromanzi ispirati ad altrettanti modelli preesistenti; nella fattispecie, per quanto riguarda la sottotrama di Aldo, Cesare Pavese e La Casa in Collina; per la sottotrama di Adele, il filone operaistico di Carlo Bernari con Tre Operai e Ottiero Ottieri con Tempi Stretti; mentre invece, per la sottotrama di Matteo, si tratta del classico romanzo di anabasi, topos tradizionale e vecchio come il mondo. Eppure, ad un’analisi più approfondita, la presenza proprio di tali ragguardevoli elementi topici mi fa pensare che In territorio nemico sia stato concepito espressamente come una specie di falso classico fuori tempo massimo, costruito a tavolino perché almeno le operazioni di scrittura e di composizione non lo fossero. Mi spiego meglio.

Lo scoperto tentativo di narratologizzare l’argumentum adeguando una forma topica ad un contenuto normalizzato si intravede nella mimesi linguistica, che tuttavia consiste in una mimesi della mimesi (una sorta di mimesi in seconda), giacché si applica alla lingua degli autori classici del neorealismo (in particolare Cesare Pavese e il suo stile colloquiale ed espressionistico insieme). Non si tratta, insomma, di una mimesi di prima mano della lingua parlata, bensì di un linguaggio letterarizzato, ovvero quello che ci si aspetta di trovare in bocca agli italiani al tempo della Resistenza: stile paratattico, cadenze dialettali, lessemi poco meno che desueti, squarci espressionistici: per l’appunto, tutto ciò che un lettore, dato l’argumentum, vuole darsi da leggere.

Basti pensare anche agli inserti storici, accurati e scientifici, i quali richiamano certi aspetti del medesimo processo mimetico relativo ai fatti di cronaca che il New Italian Epic abitualmente mette in atto; salvo poi perdersi in imprecisioni che risultano sicuramente essere uno degli inconvenienti delle troppe mani messe all’opera attorno al testo, come quando a pag. 90 si parte da Gallicano con un camion e si arriva sulla Casilina a mezzogiorno, laddove invece, passando per la Gola dei Briganti, ben nota a chi bazzica la zona Palestrina – Gallicano – Zagarolo, con un mezzo motorizzato ad incrociare la Casilina non ci vogliono più di quindici minuti. Nutrivo qualche dubbio anche per l’episodio a pag. 141, in cui compare la bicicletta come mezzo di locomozione dei partigiani laddove invece, storicamente, i cicli erano stati vietati dalla polizia, tanto che, almeno a Roma, per aggirare il divieto si era soliti montare una terza rotella per dar loro la parvenza di tricicli ed aggirare così l’ordinanza. Sono andata a controllare sul testo di Franco Giannantoni e Ibio Paolucci, La bicicletta nella Resistenza (Edizioni Arterigere) dove ho risolto la perplessità trovando scritto: “I nazifascisti proibiranno durante la loro dominazione sul territorio italiano, in funzione anti-partigiana, l’uso della bicicletta. Quel divieto, però, avrebbe significato in città come Milano o Torino, il blocco della produzione, giacché la maggior parte degli operai la usava per recarsi al lavoro e così, persino i nazisti, spietati nelle loro decisioni, dovettero fare marcia indietro”. I quattro consulenti storici hanno in definitiva svolto molto bene il loro lavoro.

Tuttavia, se il rigore filologico è mantenuto, non accade sempre lo stesso dal punto di vista formale. Se volessimo essere non dico pedanti, ma quantomeno impuri, potremmo notare che tra i momenti poco controllati a tratti emerge qua e là una ridondanza inutile, come a pag. 112 dove si legge: “L’immagine ai suoi occhi iniziò a perdere consistenza. Immaginò che il baluginio che non smetteva di scendere e le luci alla distanza fossero i segni di una festa e il velivolo il suo progetto riuscito, il suo aereo rivoluzionario, come se fosse uscito dai suoi progetti, direttamente dalla sua testa.” (corsivi miei). Centoquindici autori, due coordinatori, tredici revisori per perdersi un passaggio come questo?

Epperò, al di là delle idiosincrasie scrittorie pur presenti, In territorio nemico raggiunge in alcuni punti vette narrative davvero degne di un (uno solo, un singolo, dico) autore degno di tale nome, e non solo per le tecniche narrative molteplici messe in atto nel testo (a pag. 197 persino l’erlebte rede!).  Le pagine migliori sembrano  quelle dedicate al personaggio di Aldo: un nevrastenico, un bastardo, il cui rapporto con la madre, per certi versi, ricorda quello che il personaggio di Gonzalo Pirobutirro d’Eltino intrattiene con la propria all’interno de La cognizione del dolore di Carlo Emilio Gadda (e non escludo che ci sia davvero un riferimento voluto, una sorta di omaggio al Grande Barocco della letteratura italiana). Se il percorso formativo di Matteo è un’anabasi, quello di Aldo, all’interno del Bildungsroman parallelo che percorre il romanzo, è al contrario una catabasi, una caduta psichica a picco nelle proprie inferne de-formazioni fino alla conclamata follia dell’isolamento forzato. Al contrario sua moglie Adele, predestinata ad una vita di debolezze in assenza della scomparsa figura maritale, scopre di avere “le palle”, imbraccia il fucile e diventa partigiana non esitando a sparare e a lanciare granate; laddove, un minuto prima, non aveva che da stare a letto a piangere. È proprio in questo contrasto insanabile che matura la sovrastruttura dell’inverosimiglianza, vero cappio pendente sul textus proprio laddove nessuno se lo sarebbe mai aspettato, ovvero nella descrizione del profilo psicologico dei personaggi. È infatti nel delinearne la psiche che sorgono le più evidenti lacune architettoniche.

A pag. 146 Adele dice: “voglio combattere. Per me e per quelli che ho perso”. Alla domanda successiva, posta da un compagno partigiano, sul perché vorrebbe combattere, ella risponde: “perché non voglio più subire, perché ho capito che voglio vivere e andare avanti e fare qualcosa, e…”. Ecco, quell’ “e” rimane fino alla fine un anacoluto narratologico, un punto sospeso fra l’aspirazione a realizzare il cronotopo di Bachtin e il suo compiuto fallimento, la crux desperationis di Todorov: il personaggio come “paradigma di tratti psicologici” (lo dice Chatman) è qui ben poco diairetico, la sua intrinseca debolezza è nell’eterno femminino del Faust di Goethe, su cui nel romanzo, giocoforza, s’è calcato davvero un po’ troppo la mano. Per questo Adele risulta essere il personaggio meno credibile dell’intera architettura; al contrario del fratello Matteo, costruito solidamente sui modelli vittoriniani, calviniani, pavesiani: un vero figlio del popolo che acquista coscienza interiore durante lo svolgersi delle vicende ed alla fine s’accresce fino a potersi definire “uomo”, epperò, di conseguenza, risulta essere il personaggio meno amabile proprio perché è il più ordinario.

Ecco perché In territorio nemico è un romanzo che non può definirsi di neorealismo post-moderno, bensì, al limite, post-modello: racimola le proprie suggestioni dal materiale letterario precedente ma non le ricompone in forma di un patchwork teratologico cambiato baroccamente di segno, come invece il post-moderno normalmente fa, bensì segue e persegue il ritorno alla posatezza di una scrittura facilmente riconoscibile perché classicheggiante, immediatamente identificabile tramite la propria ammiccante trasparenza, la propria araldica patente, non foss’altro che appartenendo inevitabilmente ad una scrittura non nobile di sangue, ma di toga e di foga, che si dipana per archetipi letterari; come quando, nel finale, gli Americani funzionano da deus ex-machina.

Ed ecco allora svelato l’inganno, ecco allora evitato il malinteso: In territorio nemico è un libro solo apparentemente resistenziale perché al di là della propria centratura ambientale e tematica i protagonisti manifestano lo stesso disagio ideologico ed esistenziale della gioventù attuale: in cerca di ideali a cui aggrapparsi, di speranze, di riempimenti necessari a dare senso al vissuto quotidiano, si abbattono, cadono, si rialzano, si sbracciano, si lasciano trasportare dagli imprevisti, si fanno cullare dai marosi ognuno della propria odissea personale fino al ricongiungimento e all’agnizione finale. I personaggi del romanzo, insomma, sono più attuali di quanto si sia voluto dare da pensare, e sono attuali proprio essendo antichi, archetipici, stereotipati.

E tuttavia non è neanche questo punto ciò che va messo criticamente in risalto, bensì l’aspetto formale, la metanarrazione (in senso lyotardiano) che appare sottesa all’intera operazione di realizzazione dell’opera. Ciò che mi sembra cogente rilevare è il fatto che l’operazione scrittoria del romanzo rivela la funzione ormai prevaricante del lavoro di editing su quello di scrittura vero e proprio. Quella che prima del metodo SIC veniva definita “la scrittura del testo” diviene materiale spurio di grezza schedatura, cosicché le composizioni e la revisione, in questo contesto, sono tutto. In territorio nemico è più che un romanzo, è un segno dei tempi vissuto in ritardo, un tentativo di organizzare una catena di produzione industriale a montaggio (di contro all’abituale metodo di scrittura a staffetta di cui s’è finora avvalso qualsiasi romanzo collettivo) in tempi in cui l’economia del testo (e in poesia, del verso) si regge sul settore terziario. È un tentativo di fare in modo che riemerga il verum factum in un sinolo di contenuto e forma laddove invece normalmente vige l’aspetto pubblicitario, esteriore, metascrittorio del nome. I nomi di coloro che hanno scritto, redatto e compilato il libro, infatti, proprio per evitare questa emergenza dell’ego sono rivelati tutti alla fine, in una lista che somiglia ai titoli di coda di un film; certo, spiccano quelli degli ideatori e coordinatori del progetto, Gregorio Magini e Vanni Santoni (coloro che nelle conferenze e nelle presentazioni ci mettono anche la faccia), eppure in fondo la notazione elencativa finale è un surplus insolvente nei confronti della richiesta identitaria da parte di quel lettore romanticamente nostalgico che non s’abitua e non s’abituerà mai alla barthesiana morte dell’autore.

Ecco perché, in un certo senso, ci sono centoquindici scrittori ma non ce n’è nessuno, in una sorta di dissipatio Scriptoris Generis mai raggiunta prima, nemmeno nella possibile elencatio di sette milioni di Wu Ming messi in fila coi numeri cardinali; e questa Dissipatio S.G., per parafrasare Morselli, può certo realizzare un buon romanzo prodotto industrialmente, come in una catena di montaggio; ma poi, come spesso avviene nelle fabbriche cinesi, dopo questa prima prova narrativa può rischiare a lungo andare di produrre un meccanismo che s’inceppa, un prodotto a basso costo produttivo ma volatile e facilmente obsolescente, che può rompersi come un “anello che non tiene” (lo diceva Montale con ben altre intenzioni) oppure passare in fretta, in una risoluzione di sostanza narrativa il cui esito, lo si prenda come un rischio concreto per il futuro, potrebbe risultare d’ora in avanti ingiustificabilmente stucchevole. 

  • Scrittura Industriale Collettiva, In territorio nemico
  • Miminum Fax, Aprile 2013
  • pp. 308, euro 15,00

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