Nel ristretto novero dei film che, nei miei ricordi di cinefilo, hanno dato il benvenuto all’obnubilazione è entrato recentemente a farne parte, purtroppo, In Time , regia e sceneggiatura di Andrew Niccoll, autore del quale rammento invece con piacere, oltre Gattaca, sua opera d’esordio dietro la macchina da presa, lo script di The Truman Show, ottimamente trasposto sullo schermo da Peter Weir, avvalorato da una più che convincente interpretazione di Jim Carrey.
Il plot si presenta certo interessante, pur non insistendo su spiegazioni particolari ed introducendo sin dalle prime scene l’intuizione distopica di un futuro dove gli esseri umani nascono geneticamente modificati, un codice-timer luminescente è impresso sul braccio a calcolare il tempo di vita a disposizione, fissato a venticinque anni, con la possibilità di riuscire ad ottenerne in più, mantenendo lo stesso aspetto fisico, lavorando o rubando.
Del primo avviso è l’operaio Will Salas (Justin Timberlake), ventisette anni (25 più 2), una modesta casa nel ghetto di Dayton, dove vive letteralmente alla giornata, insieme alla madre Rachel (Olivia Wilde), che ha appena festeggiato i cinquant’anni (25 più 25), barcamenandosi tra i costi della vita sempre più alti, anche questi espressi in unità temporale e non più in denaro.
Proprio la morte della madre, insieme all’inatteso dono da parte di un uomo ricco (più di un secolo di vita), avvenuto poco prima, faranno sì che Will sia combattuto se sperperare il proprio tempo a disposizione entrando nel dorato mondo di New Greenwich o, memore delle gesta paterne, attuare una personale lotta contro il sistema, braccato dal Timekeeper Raymond (Cillian Murphy) e affiancato dall’ereditiera Sylvia (Amanda Seyfred)…
Le tante metafore delineate da Niccoll, dall’idea di perfezione estetica concretizzatasi nella volontà di fermare il tempo al concetto di monetizzazione di quest’ultimo, che viene così ad assumere tanto un valore materiale, “il costo delle cose”, che spirituale, “il senso della vita”, con ovvi riferimenti all’attualità, si mantengono affascinanti e coinvolgenti almeno per la prima mezz’ora del film o giù di lì. Complice la bella fotografia di Roger Deakins, cangiante nei colori dal ghetto ai quartieri alti, non si può restare indifferenti alla visione di un futuro tutta giocata sulla reinterpretazione del presente, sfruttando le scenografie naturali (le stesse auto sono una personalizzazione di modelli d’epoca, dalle berline alle sportive), senza propriamente modificare alcunché, così come è molto bella la sottolineatura dei diversi ritmi di vita nei due quartieri, estremamente velocizzato a Dayton e nel segno dell’ignavia dilatata a New Greenwich.
Proprio quando il film vira verso l’action, inseguimenti in auto e a piedi, sparatorie, rapine, tutto si banalizza e, paradossalmente, diviene statico e fumettistico, concentrandosi stancamente sulle prodi gesta del duo Timberlake- Seyfred, entrambi intenti a superare l’arduo limite dell’espressività catatonica: in particolare quest’ultima, per inciso sensuale come può esserlo un citofono, riesce a conferire un personale tocco fantascientifico nel correre i quattrocento metri, e relativo salto degli ostacoli, con mise da passerella, tacco assassino, pettinatura e trucco sempre impeccabili. In sostanza, un onesto film d’intrattenimento, gradevole da un punto di vista soprattutto visivo, con un forte potenziale, trattenuto più che inespresso, fermo in un’ aurea sospensione stilistica ancor prima che temporale.