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Sostenuto da una costruzione visiva insieme realistica e lisergica di una bellezza rigorosa e di forte intensità espressiva, "Armadillo" è il vero "match point" sulla guerra in Afghanistan, un documentario "live-action" di matrice europea speculare al "Restrepo" statunitense, che riesce ad imprimersi con una forza nuova, quella della realtà, rispetto ai lungometraggi di fiction della passata stagione Hollywoodiana (Bigelow in testa). Da vedere.
Trasmesso in esclusiva da FX, presentato alla Settimana Internazionale della critica al Festival di Cannes, "Armadillo" è un lucidissimo e apolitico film sulla guerra. Nulla manca, nonostante la durata sia di poco superiore ai 90 minuti. La macchina da presa del danese Janus Metz segue i suoi connazionali in partenza verso l'Afghanistan e cerca di scrutare la loro "mutazione". Se il campo è un "armadillo" all'esterno, raccolto e delimitato per non essere colpito dalla minaccia talebana, gli uomini che vi combattono sono farfalle costrette a diventare lombrichi, a ritornere in un grembo, cercando di salvarsi prima del potere rinascere e spiccare il volo. Le due metafore sono legate, ma mentre l'armadillo rimane intatto o si ricostruisce, lo stesso non accade per l'uomo-farfalla, che perde spesso le sue ali e soprattutto la sua forza vitale, dopo esser diventato una parvenza umana. L'intero film si lega a questo assunto. Piuttosto che esprimere un'opinione sull'evento in sè (al massimo si delineano le opinioni degli afghani che si trovano tra i due fuochi nemici, coinvolti loro malgrado, l'esercito e i talebani), Metz crea un'apologia contro la guerra in grado di distruggere l'uomo. La sua è una posizione generalizzante e non applicabile al singolo caso particolare, che diventa l'exemplum piuttosto che il tema. La bravura di Metz sta nella capacità di creare un'immagine artistica e non scarsamente definita e riuscire, nel singolo fotogramma, nelle sequenze diverse e spesso montate con un ottima partitura sonora, a scorgere/cogliere i particolare di questa "mutazione" umana, con partecipazione ma anche con il distacco necessario di un uomo che non si fa coinvolgere dalla "forza" intrinseca dell'atteggiamento bellico. La poesia e la bellezza della fotografia, modulata su toni tra il grigio-verdastro e qualche calda tonalità naturale antitetica, si accompagnano a scene atroci e difficili da sopportare. Manca la retorica, che, casomai, è quella del finale, quando i giovani di ritorno dall'inferno vengono accolti dalla popolazione locale in festa, dai parenti lasciati tempo fa. Le didascalie finali ci fanno accorgere quanto sia veritiero il finale di "The hurt locker". La guerra chiama guerra.
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