Cast Away, un film del 2000 non visto sino ad una sera d’inizio 2013 quando un po’ per caso durante uno zapping compulsivo ci sono “inciampata”. Incuriosita, sempre con la voglia di cambiare canale, ma alla fine rimanendo sintonizzata, di fatto son stata catturata dall’opera ed il perché è molto semplice: non c’è antipatia verso Tom Hanks che tenga, non c’è noia verso i film lunghi e non c’è avversione verso le moderne rivisitazioni dei classici che riesca a farmi desistere di fronte a qualche ora di cinema strampalato. Questo Robinson Crusoe in chiave nuovo millennio è, infatti, talmente improbabile da apparire fanta-comicità e giustificare lo sforzo di lottare contro la stanchezza pur di scoprire sino a dove si siano spinti gli autori.
In perfetto stile americano, corredata da molte tempeste che si alternano a cieli azzurri e acque cristalline, questa è l’avventurosa sopravvivenza dell’unico superstite ad un disastro aereo, ma non di un volo civile bensì di un aeropostale che quindi non fa notizia e probabilmente non vale lo sforzo (e il costo) di far sfidare le intemperie all’elisoccorso. Il povero uomo qualunque, intraprendente ma pur sempre di città, e dipendente dalla tecnologia (anche se, data l’epoca, era un cercapersone evoluto e non un cellulare) sfoggerà un grande spirito di sopravvivenza e una notevole forza fisica, perché parliamoci chiaro, a noi di qui dallo schermo le disavventure che capitano a questo buon uomo provocherebbero una dissenteria mortale o per lo meno una dolorosa debilitazione senza eguali che ci farebbe benedire il sopraggiungere della setticemia!
Chuck/Tom invece non ci sta, è un uomo forte, ben pasciuto e con una donna dalla quale deve tornare per andare all’altare. Quindi si sbuccia le mani pur di riuscire ad accendere un fuoco, si rifugia in una grotta piuttosto angusta e con l’ausilio di metri e metri di nastro VHS riesce a costruire una zattera in grado di oltrepassare la medesima ostile barriera corallina che gli aveva inizialmente procurato lacerazioni degne di un’amputazione, il tutto in “soli” quattro anni spesi in solitudine su poco più di uno scoglio nel bel mezzo del Pacifico. E, ovviamente, l’impresa di tornare nella civiltà per la resa dei conti gli riesce dopo aver affrontato situazioni di puro delirio.Il film è lungo (tanto, troppo!), ruota intorno a Tom Hanks (l’eterno bravo ragazzo) e vuole essere un one man show che esalti le qualità dell’attore che invece appare come all’ennesimo giro di panni già indossati… solo un po’ più sgualciti. Notiamo lo sforzo di piallare la pancetta e di rotolarsi nella palta come un cucciolo in spiaggia dopo un acquazzone, ma un po’ per l’espressione e un po’ per gli effetti ben poco speciali (anche se siamo all’epoca in cui uscì The Matrix!), ci scappa da ridere un numero imbarazzante di volte.
Ma il colpo di grazia arriva durante l’ultima parte, alla quale ho dovuto dedicare ben quattro (si, si, esatto, q u a t t r o ) passaggi in TV. Com’è possibile che i monologhi del solitario protagonista su un fazzoletto di terra appaiano sovrabbondanti se paragonati agli scambi con gli altri esseri umani che ha una volta rientrato nella civiltà? Non pare anche a voi che qualcosa non torni? Secondo noi, questa pellicola si merita un bel 4. Mi spiace, ma per rendere sofferto e profondo un film si potevano imboccare vie diverse dall’eterno silenzio