In Ucraina il cannone tuona per salvare l’egemonia del Dollaro

Creato il 13 maggio 2014 da Geopoliticarivista @GeopoliticaR

«Senza l’Ucraina, la Russia cessa di essere un impero eurasiatico e diverrà un impero sostanzialmente asiatico.»[...] Ma se Mosca riconquista il controllo dell’Ucraina, coi suoi 52 milioni di abitanti e grandi risorse naturali, oltreché l’accesso al Mar Nero, la Russia automaticamente riconquisterà le condizioni che ne fanno un potente stato imperiale esteso fra Asia ed Europa.»
Zbigniew Brzezinski, La grande scacchiera. Il mondo e la politica nell’èra della supremazia americana, 1997

Quando l’anno scorso di questi tempi, il presidente Vladimir Putin inviò in Cina il patriarca di tutte le Russie Kirill, non poteva prevedere quel che sarebbe accaduto in Ucraina. Oggi di quella sua iniziativa non può che rallegrarsene. Infatti, l’incontro di Kirill con Xi Jinping, che nel novembre 2012 è stato eletto segretario generale del Partito Comunista cinese e nel marzo 2013 è diventato presidente del Paese, si svolse – sarà lo stesso presidente Xi a spiegarne il perché – nel palazzo dell’Assemblea del Popolo in piazza Tienanmen. «Lei è il primo capo religioso in visita ufficiale al nostro Paese», aveva detto salutandolo il presidente Xi. «È una chiara dimostrazione dell’elevato livello e dell’ottima qualità delle relazioni tra i nostri due paesi», aveva aggiunto e, così dicendo, aveva consacrato Kirill alla Storia come il primo rappresentante di una Chiesa cristiana e per di più russa a essere ricevuto con l’ufficialità di un capo di Stato dal presidente della Repubblica Popolare Cinese.

E’ anche questo un fatto che aiuta a capire la velocità con cui sta mutando il mondo, tant’è che non a caso l’ex-ministro degli Esteri francese Hubert Vedrine parla di “punizione sado-masochista” che l’Occidente si è inflitto, poiché sanzionando la Russia ha avviato un processo di cambiamenti che gli si ritorcerà contro. Hubert Vedrine non ha dubbi: dalla crisi in Ucraina ne trarrà vantaggio soprattutto la Cina e naturalmente la Russia e con essi il Brasile, l’India e il Sud Africa che insieme costituiscono il BRICS.

Si tenga a mente che i Paesi BRICS rappresentano più di un quarto delle terre emerse del mondo, oltre il 40 per cento della popolazione del globo, e il 35 per cento delle riserve valutarie mondiali. Le economie dei cinque paesi BRICS assommano a 12 mila miliardi di dollari, e supereranno quella statunitense – 15 mila miliardi dollari – entro il prossimo anno, come assicurano gli esperti. Anzi, secondo le stime dell’ex economista della Goldman Sachs, Jim O’Neill, entro il 2020 il Pil del BRICS sarà addirittura di 25 mila miliardi di dollari. Questo è il risultato di un’alleanza nella quale ciascun Paese è sostanzialmente differente dall’altro, non soltanto per razza o colore o fede, ma anche per come ciascun Paese del gruppo si amministra. Insomma, nonostante tutto la formula funziona, e l’obiettivo che il gruppo si pone è di rivoluzionare il mercato globale piuttosto che quello regionale o locale. Il che vuol dire, per prima cosa, diversificare le valute di riferimento in modo che il dollaro non sia più l’unica moneta di pagamento a livello mondiale.

Il 20 maggio il presidente della Russia Vladimir Putin sarà in visita ufficiale in Cina. Prima tappa a Shanghai per firmare il contratto per la costruzione di un gasdotto dalla Russia alla Cina che è destinato a stravolgere le regole del mercato della energia, poiché le operazioni di compera e vendita non saranno più in dollari bensì nella valute nazionali dei due Paesi. Il successo della visita è scontato, almeno secondo Vladimir Yevseyev, direttore del Centro per gli Studi Socio-Politici russo, quando spiega che «La Cina, vuole comprare non solo il nostro gas naturale, ma anche il nostro combustibile nucleare per alimentare le sue centrali nucleari. Sarà pure rafforzata sensibilmente la cooperazione tecno-militare, saranno create nuove joint venture. Insomma stiamo entrando in un nuovo livello di relazioni».

Sicché prendono forma le previsioni di Arvind Subramanian e Martin Kessler del Peterson Institute for International Economics statunitense che disegnano un quadro nel quale la moneta nazionale cinese – il renminbi, il RMB – si rafforza mentre il dollaro s’indebolisce. Essi confermano che il RMB è già la moneta di riferimento in India e in Sud Africa. Poi spiegano che dalla metà del 2010 il RMB ha fatto passi da giganti come valuta di riferimento rispetto al dollaro e all’euro. «Le valute di Corea del Sud, Indonesia, Malesia, Filippine, Taiwan, Singapore e Thailandia ora sono collegate più al RMB che al dollaro. Il predominio del dollaro come moneta di riferimento in Asia orientale è ora limitato a Hong Kong, Vietnam e Mongolia». Pertanto, «Il dollaro e l’euro hanno ancora un ruolo che va ben al di là di quello del RMB, ma tutto sta cambiando a favore della moneta cinese», conclude la relazione di Arvind Subramanian e Martin Kessler.

L’accordo che sarà firmato a Shanghai accelererà questa tendenza che, come ho avuto occasione di scrivere, certamente avrà effetti devastanti sui meccanismi economico-finanziari che sostengono lo status di superpotenza degli Stati Uniti. Infatti, l’unico modo che essi da sempre hanno per far sì che il resto del mondo continui ad accettare riserve di dollari sempre più svalutati (dopo la fine della conversione in oro, decisa da Franklin D. Roosevelt e poi confermata da Richard Nixon) è quello di legare indissolubilmente il biglietto verde ad un bene fondamentale per tutte le economie: l’energia. Ogni volta che è venuta meno questa certezza gli Stati Uniti hanno fomentato una crisi: Libia e Egitto, Siria e Afghanistan, Pakistan e Iraq e adesso l’Ucraina – una catena di orrori senza soluzione di continuità.

Quest’ansia perversa di salvaguardare il dollaro e con esso il governo dell’America sul mondo sta alimentando in Ucraina uno scontro che coinvolgendo la Russia rischia davvero di mettere in gioco gli equilibri geopolitici dell’intero pianeta. Ne è una conferma tra le tante, il pogrom antirusso di Odessa, con il lancio di molotov, di granate artigianali, di assedi, di incendi e un bilancio di almeno una cinquantina di morti ad opera delle squadre nazistoidi di Pravy Sektor (“Settore Destro”), protette e inquadrate – è risaputo – dalla Cia. Quanto basta per scatenare un conflitto mondiale.

Questa caparbia volontà degli Stati Uniti i quali, pur di conservare lo status di superpotenza globale scatenano sanzioni ed embarghi, esercito e marina, droni e blocchi contro quelle nazioni che, a loro insindacabile giudizio, metterebbero a rischio il loro potere, si scontra inevitabilmente con le ambizioni economiche di una Cina la quale non vuole non solo più dipendere dal dollaro, ma è decisa a sbarazzarsi anche di quelli che ha. Il risultato è che le sanzioni statunitensi non producono effetti sulle nazioni che sono partner commerciali della Cina.

Così è accaduto con l’Iran del quale la Cina è il primo partner commerciale, come conferma il quotidiano britannico Financial Times. E così accadrà con la Russia di Vladimir Putin. Il quale arriverà il 20 maggio a Shanghai e il giorno dopo a Pechino con tutto il patrimonio energetico, economico, e con il gotha della finanza e dell’imprenditoria russa.

Assetata com’è di materie prime, la Cina ha di recente intensificato la sua presenza pure in America Latina, quella che nell’immaginario è da sempre “il cortile degli Usa”. E dunque, con gli Usa impantanati in Ucraina, non poteva scegliere stagione migliore il ministro degli Esteri cinese Wang Yi che ha appena terminato il suo viaggio nel continente sudamericano durante il quale ha visitato Cuba, Venezuela, Argentina e Brasile. A luglio, sarà il presidente Xi Jinping che compirà il medesimo giro e s’incontrerà con Raul Castro, Nicolas Maduro, Cristina Fernandez e Dilma Rousseff. L’occasione è il vertice del BRICS che si svolgerà a Fortaleza, in Brasile appunto dal 15 al 17 di luglio.

E’ un appuntamento molto atteso poiché avviene dopo la visita di Putin a Shanghai e l’adozione del rublo e del renminbi anche nel mercato dell’energia. Dopotutto, proprio l’anno scorso in Sud Africa, dove si è svolta l’ultima riunione del BRICS, Brasile e Cina hanno firmato un accordo, per un valore di 30 miliardi di dollari, che consente ai due Paesi di usare le proprie rispettive monete per gli scambi commerciali bilaterali. Il tutto in sintonia con quanto conclamato nel 2009, nello storico primo summit delle economie emergenti riunito in Russia, che si concluse con la dichiarazione congiunta: «Crediamo che sia veramente necessario avere un sistema di divise più stabile (del dollaro statunitense), di facile pronostico e più diversificato».

Nel giro di un lustro dalle dichiarazioni i Cinque sono passati ai fatti. Se ne è accorta per prima la Germania che nel marzo scorso si è aggiudicata il titolo di piazza finanziaria dell’eurozona per gli scambi nella moneta cinese. Francoforte diventa l’hub europeo, l’unico autorizzato a regolare le transazioni finanziarie in renminbi cinesi. «E’ un passo importante sulla strada della internazionalizzazione della nostra moneta», ha detto il presidente Xi Jinping ai politici e agli imprenditori di Düsseldorf, durante la sua visita in Germania. A far da fondale ci sono i resoconti annuali dei flussi commerciali tra la Cina (la seconda più grande economia del mondo) e la Germania (la più grande d’Europa), che superano di gran lunga quelli con la Francia, la Gran Bretagna e l’Italia messe insieme.

Sicché meglio si capisce il nervosismo, ad ogni sussulto del dollaro, della Federal Reserve Bank, delle lobby finanziarie, dei gruppi di interesse fautori di un globalismo esasperato, e di un capitalismo ferreo. Costoro reagiscono ammassando forze militari e paramilitari ai confini russi in Europa, e nelle acque della Cina in estremo Oriente. Poiché le controversie tra Ucraina e Russia su Crimea e federalismo ucraino diventano un utile pretesto per incoraggiare l’uso della forza, del confronto armato, con lo scopo non ultimo di distrarre l’attenzione da quello che è il loro problema principale: la salvezza del dollaro e con esso dell’impero americano. Su questo l’amministrazione Obama fa quadrato, poco importa se il cannone è tornato a tuonare nel centro dell’Europa. L’impressione è che tuonerà per molto tempo ancora, perché questa maxi intesa tra Cina, Germania e Russia, per non dire dell’accordo energetico monstre in renminbi-rubli tra Putin e Xi, preoccupa gli americani parecchio.


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