Magazine Cinema
"Il buco, profondo e oscuro. La sua oscurità dura fin dai tempi più remoti".
Un mare suadente, instabile ma infinito di canneti.
Percussioni che rimbombano, un sax che sembra prevedere ogni peccato, ogni ingiustizia, ogni bramosia d'amore.
L'oceano è il microcosmo di piante mosse dal vento che si agitano come onde mentre disegnano figure concentriche quali nuove, asfissianti geometrie.
Non rimane altro che correre nella notte, o ardere, vittime di un fuoco erotico che sembra l'unica ragione prima della futura dannazione.
"Onibaba" mi ha ricordato il movimento della danza ancestrale, dei riti pagani e dei racconti infernali, delle superstizioni e dei fantasmi: quel folle, magico mondo dell'amore e della morte dove si riflette microscopicamente la storia di un Giappone medievale immerso tra guerre e carestie. Qui due donne sopravvivono alla fame e alla miseria uccidendo uomini e vendendo poi le loro armature.
"Onibaba" è il film delle paludi e degli spettri, di una bestialità animalesca sempre pronta a tornare a galla, ma soprattutto di una sessualità repressa e di un desiderio incondizionato (penso al sentimento passionale, vendicativo e ardente della gelosia, alla scena meravigliosa di quel tronco rigido, eretto, da abbracciare e tutelare dopo aver spiato orgasmi da cui si è esclusi). Si rimane sempre in equilibrio precario, sospesi e in bilico, sopra quel buco nero di ossa dimenticate.
Perché poi quella maschera del demonio che non si leva più dalla pelle, che "proteggeva" la bellezza e la purezza di un giovane, ha il potere di distruggere tutto: nessun oltre metafisico, il demone è già dentro di noi.
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