Finisci di leggere l’ultimo rigo di “Non è un cambio di stagione. Un iperviaggio nell’apocalisse climatica”, chiudi la copertina, la guardi un secondo, giusto il tempo di strabuzzare gli occhi, e d’istinto, pensare: “Adesso è chiaro. Ci stanno prendendo tutti per il culo”. Potere di Martin Caparròs. Formalmente, uno studioso, un traduttore di fama mondiale, direttore di svariate riviste culturali. Sostanzialmente, molto più praticamente, uno che parla chiaro, usando le parole senza stringere loro la mano previo accordo riparatore.
“Non è un cambio di stagione”, d’altronde, lo esige quale precondizione. Perché a proposito di mutamento climatico, di apocalissi del tempo atmosferico, di alterazione della temperatura si è scritto tanto e detto altrettanto. Di riffa o di raffa, con cognizione di causa o meno, ne hanno discettato tutti. Figuri e figurine. Tanti colletti bianchi, frotte di politici. Elogisti alla ricerca dell’attenzione mediatica, gruppi virtuali e comitati spontanei. E questo, leggendo Caparròs, è stato un gran problema. Già perché, insinuandosi nel discorso, ciascuno con il proprio interesse tangibile, ciascuno con la propria consunta radicalità, l’hanno posto – il discorso – a servizio di una parte. Per farne soldi, come nel caso degli affaristi verdi, dei Gore e degli Annan, degli speculatori verdi e di quelli verdastri che, prima ancora della temperatura sulla Terra, hanno visto crescere, e notevolmente, il proprio conto in banca. Oppure, come nel caso degli ecololò, per dare un senso al proprio dolore, alla propria solitudine. Per indirizzare il terrore dell’uno sulla strada dei molti.
Ma Caparròs è brutale e insensibile e non cede alle stime. Di volo in volo, percorre quelle che per noi si conformano come 270 pagine. E che per lui sono, appunto, stracci di apocalissi, parentesi di mondo sull’orlo della fine. Dieci tappe, dall’Amazzonia a New Orleans, dalla foresta tropicale fino alla culla dell’uragano Katrina. In mezzo, l’Africa, l’Australia, la Polinesia. Parti di mondo e spesso mondi a parte, ciascuno raccontato attraverso gli occhi di un viaggiatore critico ed inquieto, ironico e spietato, ma anche nelle storie di chi gli antipasti della fine li ha vissuti e li sta vivendo. Ragazzi, per lo più, alle prese con la siccità o con le inondazioni, intimoriti dalla spada di Damocle dell’innalzamento del livello dei mari. Tutti identicamente preoccupati, ma tutti identicamente impegnati a non rassegnarsi. Nessuno spezza il filo con la propria terra. Nessuno la abbandona. Messias è sempre in Brasile, guru della Permacultura; Mariana non è scappata dal Niger; la casa di Youness è sempre Rabat e quella di Kilom è Majuro.
Per loro, Caparròs conia una fine che quasi è martirologica: “Il cambiamento climatico sembra una minaccia democratica. Si ha l’impressione che minacci tutti, allo stesso modo (…)Non è vero: la lista dei paesi più minacciati assomiglia molto alla lista dei paesi più poveri”. Pagheranno per tutti. Pagheranno per uno sviluppo che non hanno mai avuto, perché frenati dalla gola dei grandi paesi industrializzati. Pagheranno anche per colpa di quelli che chiama ecololò, fautori strenui di una causa che snobba l’altrui per rivolgersi al proprio ego. “L’ecologia è come la solidarietà degli individualisti”. Fuggire di fronte al pericolo ignorando che, accanto, ci sono altri uomini ed altre donne. Puro istinto di sopravvivenza. O, se vogliamo, di conservazione. Della specie. Della razza. Eppure, la riflessione di Caparròs, che punta a privilegiare il soddisfacimento dei diritti collettivi elementari alle istanze dei teoreti dell’ecologismo spinto, non è una sobillazione contro l’ambiente. Il suo reportage mira a smontare l’illusione democratica della tragedia. E così giocherella con la morale ballerina di associazioni gruppi fondazioni che, spesso in concorso con grandi multinazionali, si arruolano nell’esercito dell’iniziativa salvifica. L’ecologia, qui, si fa ecololò. Cantilena propagandistica, nenia di paura e remissione dei peccati. I milioni di euro investiti (già, come in una speculazione finanziaria) come le preghiere sonanti del peccatore, l’atto di dolore recitato di fronte a masse credulone e inconsapevoli. L’amen ce lo mette Caparròs: impietoso.
Martin Caparròs, “Non è un cambio di stagione. Un iperviaggio nell’apocalisse climatica”, Verdenero 2011 (traduzione Maddalena Cazzaniga)
Giudizio: 4.5 / 5 – Frecciatata
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