di Lele Mastroleo
Jan Brueghel il Vecchio: Paesaggio con viaggiatori (1610 ca.)
Le nuvole accatastate a coprire il sole alto,tra mezzogiorno e il vespro,
minacciavano divertite un temporale.
Nei flipper dei bar la notizia rimbalzò tremenda mentre le biglie minacciavano felici il prossimo tilt. La gente uscì per la strada e si rifugiò nei supermercati.
Mio nonno invece,esule e partigiano,stava per morire.
Le istituzioni spariscono sempre all’ombra di un terremoto.
Decisi per questo di partire per andare a trovarlo,a rendergli visita,spaventata dalle voci sulle sue condizioni che si dicevano molto gravi.
Era ad un giorno e più di cammino e per noi lumache, è risaputo,che diventa molto dura,quando si tratta di accelerare.
Mi levai di buon’ora che era ancora notte,nutrendo la speranza di arrivare dal nonno prima dell’imbrunire.
Intrapresi il viaggio di buon passo promettendomi di non fermarmi a nessun incontro che mi poteva capitare. Ma come mi spingevo lungo il cammino capivo che sarebbe stato tremendamente difficile proseguire.
Una continua pioggia tamburellava inquieta sulla mia corazza mentre il sole indeciso tentennava a sorgere.
Le immagini del verde prato scorrevano lente e monotone al mio sguardo.
Il fardello di viveri che portavo con me rimbalzava leggero tra le spalle e le corna.
A parte il nonno e la pioggia non era effettivamente una gran brutta giornata.
Avevo da poco superato il centesimo filo d’erba,quando vidi pararmi di fronte un’ombra sempre più vicina sempre più di fronte.
Rimanevo tranquilla,perché a parte quegli animali alti dritti sulle zampe e con le altre due che gli scivolano sui fianchi,nessuno si sognerebbe mai di far male ad una lumachina. Forse solo qualche uccello costretto dalla fame.
Quell’ombra oramai attaccata alla mia faccia altro non era che una lumachina spaventata dal terremoto. Era misera stremata nelle forze per i due giorni di cammino. Spossata nel dover scappare il più lontano possibile dalla tragedia.
Scappare dalle macerie del passato per cercare di essere migliori è una delle poche spinte che ci rende vivi.
Ricordai il mio intento a non fermarmi mai. La salutai velocemente (scusate la presunzione) e ripresi a strisciare di buona lena.
Al’improvviso il sole uscì fuori dalle nubi e rifletteva nello stagno tutto il parco circostante. All’improvviso queste immagini mi spinsero a cantare.
A farmi l’eco mille foglie sudate per la pioggia,piegate sui frutti a proteggere l’invernale lavoro. E tra di loro una meravigliosa composizione di fiori,con tutti i colori che la natura ci rende degne di scoprire,ornava i robusti rami. Umili servi del gioco finale.
E il vento capriccioso passava a lambire i rami melodiando una musica originale che accompagnava la mia esile voce.
Un vento che muoveva le foglie i fiori e i frutti fin da farli sembrare partecipi di una danza.
Ed il sole che faceva l’occhiolino alla quercia,risplendente di quel sempreverde secolare,albero tra gli alberi,meraviglia tra le meraviglie…ed io piccolo essere a contentare i piccoli occhietti di fronte a questa magnificenza.
Camminavo spedita (si fa per dire) con ancora in bocca quelle melodiose parole di quella vecchia canzone di Cornamusa Jackson,la lumaca nera dell’Illinois,che le maestre ancora in alcune scuole elementari inseriscono nel programma e fanno passare a memoria alle lumachine.
Ricordavo i miei passati scolastici,la signora maestra Cornusia,i compagni di classe,la festa del diploma,il primo ballo scolastico.
Già il primo ballo della scuola. Eravamo,noi maschietti tutti tirati dalle corna alla coda,vestiti con le prime cravatte tessutaci per l’occasione da messer Baco,le lumachine sedute sui sassolini ai margini della sala da ballo,il complesso di Don Cicala sulla sinistra e l’entrata sulla destra da dove ad un certo punto della serata entrò con un armonioso strisciare Cornelia,la più bella lumachina del mondo,la più bella di tutto l’universo,la più bella di tutte le belle,mio unico e grande e segreto amore dal tempo dell’asilo.
Ricordavo quello specchio di lato la sala che rifletteva una faccia paonazza per la timidezza appena mi avvicinavo ad essa. Ricordavo il mio primo esitante approccio,quella accennata richiesta di ballare,il nostro primo incerto bacio,la nostra fuga a bordo di un airone,quella notte d’amore infinita.
Poi lei dovette partire (ma questa è già tutta un’altra storia).
Mi scorrevano quei ricordi come se fosse successo tutto da un minuto.
Poi…iniziavo adesso a sentirmi un peso enorme sulla corazza,un peso farsi sempre più intenso,uno scricchiolio tremendo del mio guscio,un dolore lancinante…
poi non sentivo più nulla e non ricordavo più nulla….