Prosegue l’itinerario nel mondo in viaggio con la Vespa di Giorgio Càeran. Ecco la terza puntata: dopo il Nepal, facciamo un salto di diversi anni e di continente, ed eccoci tra Algeria e Niger.
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di Giorgio Càeran
Da Giramondo libero – In viaggio con la Vespa o con lo zaino (Giorgio Nada Editore)
(gennaio 1985, parte di un viaggio iniziato il 21 dicembre 1984 e finito il 15 febbraio 1985)
A Tamanrasset mi fermo cinque giorni, grazie alla cordiale ospitalità offertami (l’ospite qui è sacro: lo insegna il Corano), così ho modo di “scoprire” meglio la città. Tamanrasset è carina, ma non mi attrae per nulla, nonostante abbia costruzioni color biscotto vagamente simili a quelle di In Salah; è troppo moderna per i miei gusti, non ha quartieri caratteristici, ma per contro è meta del turismo di massa. La gente però è cordiale, riserva un’accoglienza calorosa ai visitatori, cosicché non ho alcuna difficoltà a fare un consistente numero di buone conoscenze. Diversa e drammatica è invece la situazione degli animali che ci vivono, compresi gli spelacchiati e denutriti dromedari, e non c’è da stupirsi nel vedere numerose carogne di pecore e di gatti lasciate lì a essiccare nell’oued. Nell’attesa dell’imminente partenza su un camion, parlo con l’autista che mi racconta della miseria e della fame che regnano nel Niger, nel Burkina Faso, nel Mali e nella Nigeria. Apprendo anche che un passeggero di un altro camion nigerino è morto ieri all’ospedale di Tamanrasset. La notizia per me è particolarmente triste perché, il giorno precedente, avevo visto il poveretto morente: era così magro che il viso lasciava intravedere le ossa.

Agadez (da travelblog.org)
Vicino al camion, pronto a partire per Agadez, vengo guardato per un po’ con diffidenza, poi infine ricevo l’invito a bere il tè da quelli che saranno i miei compagni di viaggio. C’è anche il francese Bruno: si vede che è destino che si debba continuare il viaggio insieme, cosa di cui siamo felici entrambi. Sono di buon umore e ho voglia di scherzare con chiunque. Così, mentre parlo allegramente con un Targui, contemporaneamente guardo una donna dall’aspetto assai gradevole; lui allora mi fa gentilmente notare che è la sua compagna: una Targuia. Cambio subito atteggiamento.
Dopo ventotto ore d’attesa, finalmente si parte. Tale ritardo si deve alla “Paris-Dakar”, che in pratica blocca il transito degli altri veicoli. I primi cinquanta chilometri sono ben asfaltati, poi il fondo stradale peggiora sempre più, fino a trasformarsi in pista. Lasciata Tamanrasset, nel bel mezzo del Sahara, la strada sale inoltrandosi fra montagne rocciose: la vegetazione è scarsa, solo qualche alberello qua e là; le rocce sono grandi e lisce. A bordo di un piccolo camion, Bruno, io e cinquanta Tuareg Kel Oui provvisti di merce e bagagli, stiamo percorrendo una pista lunga novecentocinquanta chilometri che porta ad Agadez.
Dopo sessanta chilometri di viaggio ci si ferma per mangiare e bere: l’acqua è contenuta nella carcassa essiccata di un montone al quale, naturalmente, sono state tolte le interiora e tagliata la testa, trasformando il collo in un rubinetto. La sosta è salutare: le gambe e i piedi sono intorpiditi per la posizione in cui sono stato costretto durante il viaggio. Il cielo è azzurro, assolutamente sgombro di nubi, e il sole è caldo. Dialogando con i Tuareg apprendo che il turbante, ossia il taguelmoust che gli “uomini blu” portano sul capo nelle grandi occasioni, costa tantissimo per via della sostanza bluastra di cui è impregnato che, come una carta carbone, lascia tale colore sulla pelle. È una civetteria, se vogliamo, alla quale i “signori del deserto” tengono molto. Noto che questi Tuareg portano appesi al collo portafogli ben decorati e amuleti, indossano larghi pantaloni a pieghe stretti alle caviglie e sopra la lunga gandoura color turchese, ampia e aperta sui fianchi. Infine calzano sandali provenienti dal Niger.
In verità, uomini vestiti così, in maniera tradizionale, non sono molti: la maggioranza, infatti, preferisce il turbante semplice, lo scesc, lungo otto metri. Gli altri abiti indossati dai Tuareg sono uguali nella foggia, ma di diverso colore. Le donne portano uno scialle nero o bianco sui capelli ma, a differenza delle altre donne che ho incontrato a nord del Sahara, non nascondono il viso grazie alla libertà di cui godono nel loro popolo. Le compagne dei Tuareg, assai seducenti, hanno un portamento disinvolto e dignitoso: si avvolgono in un gran tessuto leggero di cotone blu, trattenuto da una cintura all’estremità della quale pende la chiave di casa. Sotto questo velo indossano una gonna lunga fino alle ginocchia.

Il “tôle ondulée” (da yovoyovo.free.fr)
Si riprende il cammino in una pianura monotona e uniforme. Sull’immensa distesa di sabbia, larga qualche chilometro, ci sono tracce di ruote che si diramano in varie direzioni. Se da In Salah a Tamanrasset il traffico era intenso, adesso, da Tamanrasset ad Agadez, non è più così, dato che i veicoli in transito sono pochi. La luce è abbagliante, tanto che non posso evitare di usare gli occhiali da sole. Quando il camion è in movimento mi riparo dal freddo indossando una maglia di lana, però il sole è molto caldo: così, in poco tempo, mi ritrovo con la pelle arrossata. La pista è sabbiosa e piatta, e solo di tanto in tanto compare il tanto temibile tôle ondulée. Qua e là giacciono carcasse di vecchie automobili.
Dopo il tramonto, il cielo offre uno spettacolo singolare; le stelle appaiono grandi e luminosissime, dando l’impressione di essere talmente vicine da poterle toccare: non avevo mai visto nulla di simile prima di arrivare nel Sahara. Viaggiando di notte si gela per il freddo, ma per contro si può ammirare lo splendido scenario che sta sopra le nostre teste, unico al mondo, penso. Infatti, senza l’umidità nell’aria la visuale è straordinariamente nitida, priva di nubi fra cielo e terra. L’enorme sbalzo di temperatura fra il giorno e la notte pare sia determinato dal clima assolutamente secco; per questo, il calore del sole non è trattenuto dal suolo: manca, vale a dire, quel filtro umido fra terra e cielo che altrove impedisce escursioni termiche così sensibili.
Il viaggio è invece straziante: non posso minimamente muovermi, così il formicolio ai piedi e alle gambe si fa sempre più intenso. Inoltre, sono completamente coperto di polvere. Non faccio altro che ingoiare sabbia… S’intrufola da tutte le parti e non si riesce a porvi rimedio. Prima di ripartire, al termine di ogni sosta, c’è letteralmente l’assalto al camion per “conquistare” un posto migliore del precedente… come se ce ne fossero! Sia il francese sia io (ossia gli unici europei a bordo), dopo un po’ di disorientamento per le incredibili scene d’arrembaggio che osserviamo stupiti, ci facciamo rispettare rendendo pan per focaccia a coloro che cercano di fare i furbi: non c’è altra possibilità. O ci si adegua in fretta alla realtà, o si dovrà penare per il resto del viaggio, che potrebbe durare tre giorni.
(continua)