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in visita dal Leone del Panjshir

Creato il 26 gennaio 2011 da Chiaracataldi
in visita dal Leone del Panjshir

Il Comandante Massoud

Per uscire da Kabul ci vuole almeno un’ora. La periferia della città è grandissima, fatta di piccole costruzioni, case di mattoni e tetti in lamiera, mercati sterminati di frutta, verdura, animali appesi e oggetti di plastica. All’inizio mi stupivo della quantità di bacinelle, recipienti, bidoncini in vendita; poi ho capito che in un paese dove la maggior parte delle persone non ha l’acqua corrente in casa, questi oggetti di plastica sono davvero la cosa più utilizzata. La macchina procede lentamente per non investire pedoni, carretti e biciclette che fanno lo slalom tra il traffico. La zona che preferisco è la strada che passa tra le colline, dove si trova anche quella dei ripetitori della TV (TV Hill), con le pendici piene di casette di fango dagli infissi colorati: verde, rosso, blu, i colori spiccano dall’insieme omogeneo marroncino. Passarci di notte è ancora più suggestivo, con le luci accese dentro le case piccolissime… sembra di essere in un presepe.

Siamo tutti incolonnati verso il restringimento che si forma quando dalla provincia di Kabul si passa a quella del Panjshir, dove una specie di frontiera segna il confine. Dopo, la strada si allarga fino a due corsie per senso di marcia, spariscono le buche e finalmente possiamo viaggiare. E finalmente posso aprire il finestrino e respirare un po’ di aria pulita!

L’escursione in Panjshir è una gita fuori porta molto comune tra gli abitanti di Kabul, per passare una giornata nella natura, in riva di qualche fiume a mangiare peschi fritti. E siccome oggi è sabato, io e alcuni colleghi abbiamo deciso di seguire la tendenza, e di andare verso un po’ di tranquillità. La regione si sviluppa in lunghezza, seguendo il fiume omonimo che con la sua acqua limpida e ghiacciata scava un canion, regalando vedute mozzafiato. Tutto intorno prati verdissimi, alberi, villaggetti, capre al pascolo. Nello sfondo, montagne. Per la prima volta vedo un Afghanistan diverso, rigoglioso, dalla natura sorprendente. Mi sembra così strano, abituata all’aridità e alla distruzione di Kabul…

Ai lati della strada si trovano tantissimi piccoli cimiteri. Si riconoscono dalle bandiere bianche e verdi (i colori dell’Islam) un po’ sfilacciate che sventolano appese a ramoscelli e bastoni di legno. Vi sono sepolti i Martiri della Rivoluzione. Si trovano anche moltissime carcasse di carri armati sovietici, circondati dal grano e arrugginiti sono finalmente innocui e si possono utilizzare come set fotografico d’eccezione.

Non si direbbe a vederla adesso, così pacifica e silenziosa, ma la vallata -dagli anni 70 fino a pochi anni fa- è stata un grande campo di battaglia. Dal 1979 al 1989 è stato il principale centro di resistenza dei mujahiddin afghani contro il governo di Najibullah e le forze militari sovietiche. In effetti questa è stata l’unica zona dell’Afghanistan che abbia saputo con successo resistere all’aggressione e al controllo sovietici. La Vallata è divenuta poi un importante punto di resistenza contro i Talebani quando questi presero il potere in Afghanistan nel 1996, al termine della guerra civile. Per questo la valle è punteggiata di tombe e residuati bellici.

Attraversiamo tanti piccoli villaggi dalle case di fango, ma in questo contesto non trasmettono quel senso di desolazione che danno a Kabul. Poi iniziamo a salire un po’ per i tornanti di una collina, verso la meta del nostro viaggio: la tomba del comandante Massoud, capo dell’insurrezione anti-comunista prima e della lotta ai Talebani poi, originario di questa regione, che per il suo coraggio si guadagnò il soprannome di Leone del Panjshir.

Ahmad Shah Massoud fu ucciso da un attentatore suicida il 9 settembre 2001; è morto quindi poco prima di vedere la caduta dei Talebani, anche se forse sarebbe stato dispiaciuto anche di vedere il suo Paese invaso da altre forze armate straniere, per l’ennesima volta. Qui è celebrato come eroe nazionale, una specie di partigiano che ha combattuto per la libertà della sua terra, e tutta Kabul e il Panjshir sono tappezzati di sue foto e gigantografie, che lo ritraggono mentre ride, legge, prega.

La tomba si trova nel cuore della valle, proprio in cima alla collina, per essere vista anche da lontano. Una volta arrivati, la strada finisce, e da lì si può osservare il resto della vallata, con i suoi campi coltivati. La costruzione è un mausoleo in piena regola, un baldacchino formato da 4 portali ad arco, che culminano in una grande cupola. L’entrata è sorvegliata da due combattenti armati di kalashnikov. Dalle scarpe ammonticchiate capisco che devo entrare scalza, e che dentro ci sono un sacco di persone. E infatti, attorno la tomba coperta da tappeti e fiori finti, trovo tanti uomini inginocchiati e assorti. Un signore sta addirittura sull’attenti, e non si muove di un centimetro per tutto il tempo in cui rimango dentro io.

Dopo poco esco, e mi accorgo che ho trattenuto il respiro per tutto il tempo, forse per la suggestione, o per non infastidire chi, lì dentro, stava pregando. Così respiro a fondo l’aria frizzantina e mi guardo intorno. Solo montagne e valli verdi. Davvero un bel posto per il riposo di un Leone.



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