Da sinistra verso destra – Sally Hawkins, Cate Blanchett
Woody Allen riesce sempre a colpirmi. Woody Allen mi ha profondamente deluso questa volta. Il pubblico di Allen è sempre nel limbo tra la sensazione di avere visto un’opera straordinaria e il tradimento, l’inganno per avere creduto ancora una volta di potere essere stregati dal regista newyorchese. Blue Jasmine riesce a comunicare bellezza e frustrazione allo stesso tempo. La bellezza, inutile dirlo, è di Cate Blanchett, che si conferma una delle attrici più brave nel panorama mondiale. Jasmine ha vissuto un’intera vita voltandosi dall’altra parte, non ha visto ciò che tutti sapevano, ha persino desiderato di essere cieca piuttosto di essere cosciente e complice delle triangolazioni del marito, interpretato da un perfetto Alec Baldwin. Ma come lei stessa dice “c’è un limite ai traumi che una persona può sopportare prima di mettersi ad urlare in mezzo alla strada”.
Sebbene al cinema in Italia il timbro vocale dell’attrice australiana è trasformato rispetto alla versione originale, il doppiaggio rispetta il livello qualitativo atteso, cosa non scontata vista la difficile sceneggiatura proposta da Woody Allen. Il regista di Manhattan si mette alle spalle – anche se non del tutto – la cattivissima figura di To Rome with Love. Ritorna a parlare di problemi reali, di vizio, seduzione ed ombre, sconcerto, solitudine. Blue Jasmine è tutte queste cose. Attraverso l’effervescenza di Chily (Bobby Cannavale) e l’insicurezza cosmica di Ginger, interpretata Sally Hawkins (già vista in Cassandra’s dream), Allen riesce ad inquadrare sia il sogno americano dei colletti bianchi newyorchesi, sia la spensieratezza della working class di San Francisco. Il montaggio lascia a desiderare negli intermezzi tra New York e San Francisco, ma la colonna sonora è una vera delizia che descrive perfettamente la sospensione tra l’amarezza della solitudine e la voglia di rinascita.