Capita, giocando a ramino, di restare con due carte: l’avversario magari ne ha ancora 13 e vince. Restare incartati è pessima situazione, ci vuole un colpo di culo per vincere, quel culo che ti ha sorretto fino al momento dell’incartamento. Uno stallo disagevole simile a quello che di questi tempi si palpa fra vigne, cantine ed uffici vari.
Mi sembra, infatti, incartato tutto il settore vitivinicolo trentino e quello spumantistico ancor peggio. Peggio perché composto da “industriali”, non già da umili viticoltori cui qualche attenuante potrebbe essere concessa. L’illuminante pezzo di Roberto Colletti sul Trentino del 1° giugno scorso, già richiamato da Cosimo (qui), ne è la riprova.
La telenovela è nota, ma conviene riprenderla in estrema sintesi. Dopo aver creato e lanciato con dovizia di mezzi il marchio “Trentodoc” per lo spumante classico trentino, gli Enti pubblici locali – stanchi della supplenza ai produttori – hanno deciso di affidarlo a questi ultimi. Non già all’Istituto del Trento DOC (libera associazione di spumantisti classici), ma al Consorzio Vini del Trentino, cui per legge compete sia la tutela che la valorizzazione di tutta la filiera. Ineccepibile.
Il Consorzio però non lo vuole perché l’Assessorato provinciale competente e la Camera di commercio non hanno ancora deciso cosa farne, del marchio, s’intende. La verità è che gli hanno passato un cerino acceso ed il Consorzio non vuole bruciarsi le dita perché fino ad oggi il marchio Trentodoc lo hanno usato una quarantina di Case, non tutte, ma solo quelle aderenti all’Istituto spumante. Il Consorzio, invece, è aperto per legge a tutti coloro che utilizzano la DOC TRENTO secondo il disciplinare, quindi anche a chi finora non ha contribuito alla crescita del Trentodoc. Apriti cielo! Non sia mai che si salga sul treno uno senza biglietto, come se il TGV l’avessero pagato loro.
Insomma, una bella pagina di trentinismo, quello che – per parafrasare Silvia Giacomoni – fa rima con cretinismo. Altra cosa dalla Trentinità di Alcide De Gasperi o anche di Bruno Kessler, per intenderci.
In conclusione si può osservare che la mania di grandezza e l’autoreferenzialità del pubblico, coniugata con il cinico opportunismo del privato, sono riusciti a far abortire un’idea che altrove sta funzionando a dovere da decenni. Mi riferisco alla tutela della Denominazione di Origine pura e semplice, senza fronzoli ed orpelli che ne inquinano la purezza giuridica come nel caso dell’operazione “Trentodoc”.
La Denominazione di Origine Controllata (DOC) è – come detto – TRENTO, prevista da una legge ed utilizzabile da tutti coloro che ne rispettano il disciplinare di produzione.
Il Marchio consortile TRENTODOC, invece, non nasce da alcuna legge, ma da un’idea balzana di un’Agenzia pubblicitaria accettata, pagata e utilizzata dall’Ente pubblico per l’immagine e la notorietà del prodotto delle Case aderenti all’Istituto specifico.
L’errore di valutazione (chiamiamolo così) è stato soprattutto dell’Ente pubblico che invece di attenersi al dettato di legge (la DOC è di tutti), ha voluto “giocare al privato”, creando di fatto un club di prodotto finanziandone tutti i costi promozionali ed infilandosi così in un budello senza uscita.
Se solo l’Ente pubblico avesse preteso dalle Case produttrici la compartecipazione alle spese del 50% non si sarebbe arrivati a questo punto, con la consapevolezza cioè, che la pubbli-promozione è materia per privati operatori. Ecco perché si vuole passare il famoso cerino acceso.
Meglio lasciar perdere il marchio consortile e concentrarsi sul marchio di tutti: Trento. Con un piano per lo Chardonnay.
Se ne uscirà, infatti, nell’unico modo possibile: l’Ente pubblico torni ai suoi compiti di indirizzo, coordinamento (con eventuale finanziamento) e controllo, mentre il privato (consorziato o meno) si preoccupi di tutta la gestione della filiera sulla base di una progettualità che sarà bene mettere subito nero su bianco. Il resto appartiene ad un modello che la crisi attuale dovrebbe aiutare a superare.