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Poco male, perché la macchina funziona e va avanti spedita. Siamo in un mondo dove è possibile estrarre le informazioni dagli esseri umani, così come si farebbe con un apparecchio elettronico. Ciò viene usato allegramente per pratiche di spionaggio personale e industriale, ma a un certo punto Saito (Ken Watanabe), un ricchissimo magnate, vuole praticare un innesto (inception, appunto) in Robert (Cillian Murphy), figlio del suo diretto concorrente, Maurice Fisher (Pete Postlethwaite) "costringendolo" a frantumare l'impero del padre. Perciò, l'uomo si rivolge a Cobb (Leonardo DiCaprio), esperto di estrazione e noto per essere tentato nell'esperimento opposto. Questi, ossessionato dalla morte della moglie Mal (Marion Cotillard), chiede a sua volta l'aiuto di Arthur (Joseph Gordon-Levitt), ladro matricolato e spericolato, e, attraverso il suo "maestro" Miles (Michael Caine), di un architetto, la giovane Ariadne (Ellen Page), alla quale - per ironico e irrinunciabile contrappasso mitico - viene chiesto di costruire un labirinto.
Di che si tratta, esattamente? Della teoria per cui non è possibile distinguere la verità dello stato di veglia dalla verità del sogno; ché, anzi, il sogno viene usato quale veicolo per entrare nella coscienza dell'uomo e modificare il corso della sua vita, come dire: il sogno è il destino. La lunga digressione sulla natura dei sogni, in chiave più cognitivista che psicanalitica, è senz'altro seducente: vi prevale la teoria per cui l'atmosfera conta più del dettaglio e arredare un sogno spetta più all'esperienza del dormiente che non all'architetto. Questi deve soltanto innescare un meccanismo per cui tutto appaia familiare senza essere riconoscibile, verisimile senza cadere mai nella tentazione della verità e del ricordo puntuale. In Inception si entra e si esce dai sogni con un automatismo inquietante, soprattutto se si considera che spesso si sogna nel sogno e si sogna nel sogno nel sogno. Ci sono gradi e livelli del sogno e dunque gradi e livelli della dimensione "di coscienza" delle persone.
Trattandosi di un film, dove necessariamente tutto è appiattito su ciò che si vede (e quanto più bello e misterioso sarebbe invece mostrare ciò che non si vede in quanto tale; sì, al cinema), si trova un escamotage per definire di chi è il sogno: un totem. Ciascun dormiente si munisce di un oggetto caratteristico (quello di Cobb è una trottolina che gira), così che conosce lo spazio del proprio intervento nella situazione labirintica in cui si trova. Si tratta di una specie di accesso ai superpoteri, usati con discrezione e grande impatto visivo, ma tutto questo sistema cinico sulla struttura della realtà sembra semplificarsi quando si mette a confronto l'uomo con il suo ruolo nel mondo che abita: si rende l'essere umano vanamente onnipotente e comunque fragile, addirittura vittima; sempre soggetto alla paura di non essere al suo posto e alla certezza che il proprio posto è tutto ciò che c'è nel mondo. In film come questi manca la dimensione dell'alterità sbandierata con tanta forza.
Visivamente, Inception funziona, con le sue atmosfere misuratissime da videogioco degli anni passati e gli strumenti tecnici di oggi. È il sonoro che mi lascia un po' perplesso, almeno in italiano: sembra un doppiaggio, scorre con un ritmo diverso, misurato sulle note struggenti e, per certi versi, senza esito, di Non, je ne regrette rien (e, certo, un riferimento metacinematografico deve pur esserci, se la celeberrima canzone di Edith Piaf era anche il Leitmotiv di La vie en rose, film monografico sulla vita del "passerotto triste" interpretato da Marion Cotillard; e però, tanto per esser sinceri, non ne ho colto il senso). L'effetto è straniante, una sfida, un mosaico che, in quanto spettatori, non si rifugge dal voler comporre: in fin dei conti, Inception (fatte salve le irrinunciabili scene troppo movimentate d'insieme) è piuttosto chiaro perfino per chi, come me, ami una narrativa cerebrale, sì, ma un po' più piana.
Sono tutto fuorché ostile a indagini simili sul senso della realtà, anche capaci di sfondare il muro in direzioni antitetiche rispetto a quelle che difendo io. L'idea che si possa chiedere altro rispetto a quello che si vede è un presupposto essenziale e non mi suscita nessun malessere speciale vedere questi esseri umani che lottano per la salvezza, come topini di laboratorio, nella trappola in cui si sono cacciati. So che cosa vuol dire sentirsi alle strette, ma in Inception mi manca il senso. Il sogno e la realtà sembrano due alibi diversi che le persone si costruiscono per non essere fino in fondo sé stesse e per non portare a termine un progetto che abbia a che fare con la vita che stanno vivendo, nel modo in cui le circostanze concretamente lo consentono. La paura che il mondo "abitato" non sia quello vero mi sembra uno di quelle scuse insidiose che ci impediscono di prendere posizione, costi quel che costi, nella nostra vita. E per di più un alibi che non ci preclude, come il film stesso mostra, né la sconfitta, né le più cocenti amarezze.
Lungi da me negare il valore di un film come Inception: è ben recitato, non stento neanche a capire perché dopo la trilogia di Matrix, ormai datata, sia un cult. Scorre per tutte le due ore e mezza e rievoca situazioni suggestive (non estranee a Il tredicesimo piano o, in grado minore, a Minority Report), ma questo elaboratissimo e piacevole alambicco apocalittico non riesce a instillarmi un solo dubbio o una domanda nuova, né - tanto meno - una risposta credibile.
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