Magazine Cinema
(Inception)
Christopher Nolan, 2010 (Gran Bretagna, USA), 142'
uscita italiana: 24 settembre 2010
voto su C.C.
Parlare di sogni è come parlare di cinema, perché il cinema usa il linguaggio dei sogni; anni possono trascorrere in un istante e si può saltare da un posto all'altro. È un linguaggio fatto di immagini. E, nel vero cinema, ogni oggetto ed ogni taglio di luce significa qualcosa, come in un sogno. Federico Fellini
Cosa è l'Inception? La scintilla alla base di una idea. In un futuro non troppo remoto, è stato concepito un macchinario in grado di far “navigare” una o più persone nei sogni di un malcapitato obbiettivo. Dom (Leonardo DiCaprio) è uno specialista del settore. Durante uno di questi sogni “condivisi” è infatti capace di carpire segreti anche dal più riservato degli interlocutori, e ci riesce perché è stato proprio lui, insieme al suo partner (il sempre valido Joseph Gordon-Levitt), a costruire l'architettura di quell'esperienza onirica. Un magnate asiatico (Ken Watanabe) facendo leva sul nebuloso passato di Dom – al quale è interdetto l'accesso agli States e dunque il sorriso dei due giovani figli – lo convince a superare il limite: impiantare un'idea, o meglio una inception, nella mente di qualcuno.
Christopher Nolan sin dall'inizio della sua carriera (Memento) ha mostrato una preziosa predisposizione al sovvertimento delle consuete logiche e canoni che caratterizzano l'approccio alla narrazione cinematografica. Alla base di questa ricercata cifra stilistica c'è però una logica molto meno “nobile” di quanto si potrebbe idealizzare, e cioè la comprensione di un assioma innegabile e troppo spesso sottovalutato: il successo di una pellicola può dipendere anche dalla capacità di risvegliare, nello spettatore, quella curiosità e quell'interesse ormai anestetizzati da decenni di film banali, costruiti utilizzando sempre i medesimi canovacci. È per questo fuorviante (e superfluo) voler attribuire alle opere di Nolan (ed in particolare all'ultima, Inception) un valore semantico, o tentare di giustificare alcune scelte stilistiche e concettuali con trattati ridondanti e paralleli azzardati – a riguardo s'è parlato fin troppo di Kubrick per i nostri gusti. Piuttosto va dato atto a Nolan di aver capito prima e meglio di molti altri coevi che il vero segreto del botteghino è l'originalità degli strumenti, il dimostrarsi in grado di generare il cosiddetto hype: l'interesse che si evolve in mania, in luogo comune; in un certo senso, si tratta di praticare una inception nella mente degli spettatori (o aspiranti tali). Col suo ultimo film, il regista britannico riesce infatti a mettere in scena l'action movie perfetto, costruendo una raffinata “matrioska” nella quale sono contenuti svariati piani narrativi differenti: per portare a termine il loro incarico, DiCaprio e i suoi colleghi (Ellen Page, Tom Hardy) s'immergono in profondità nell'inconscio di un giovane ereditiere (Cillian Murphy) attraverso tre livelli e chissà quanti meta-sogni; in questo modo diventano disponibili tre (e più) differenti scenari da alternare oltre ad una enorme libertà d'azione. Assistiamo stupefatti a viali parigini che vengono piegati come fossero di cartone, a combattimenti in assenza di gravità che ricordano da vicino, come molti frangenti del film, il capostipite Matrix, e in generale ci troviamo di fronte ad un modo nuovo (o quantomeno molto originale) di intendere il tempo e i luoghi. In questo efficacissimo continuum, l'unico momento di debolezza diventa il segmento ambientato sulla neve, durante l'attacco a quella che sembra una banalissima fortezza da cattivo delle avventure di 007, del quale convince poco lo sviluppo dell'azione e ancor meno il bianco slavato della neve stessa – potremmo giustificare lo scenario da cliché attribuendolo alla fantasia poco evoluta del personaggio che lo “inventa”, ma ci sembrerebbe davvero di esagerare. L'intera sofisticata “confezione”, impreziosita dalle musiche di Hans Zimmer e dalla fotografia di Wally Pfister, si rivela però vuota quando si tenta di comprendere meglio sentimenti ed affezioni dei protagonisti; l'unico a mostrare profondità emotiva è Dom, che vive combattuto tra il senso di colpa per la morte della giovane moglie (Marion Cotillard) ed un desiderio un po' bourgeois di redenzione.
Durante una delle sequenze più riuscite di tutto il film, la Page e DiCaprio siedono al tavolino di un Caffè parlando delle tecniche di manipolazione dei sogni, sino a quando DiCaprio non le chiede, a bruciapelo, se ricorda in che modo sono finiti in quel luogo. Dopo un istante di riflessione la giovane allieva comprende di star vivendo, proprio in quel momento, un'esperienza onirica ed il mondo intorno a lei inizia a collassare coreograficamente. Nolan stuzzica lo spettatore, che come la ragazza non si era domandato in che modo i due fossero passati dall'interno di un capannone abbandonato ad un Caffè del centro, facendo sottilmente notare come (Fellini docet) il cinema imiti spesso, per meccanismi e regole, il mondo dei sogni. Ed è per questo che voler trarre ulteriori indicazioni dall'immancabile coup de théâtre col quale l'egocentrico Nolan chiude il film, diventa uno sterile e pedante esercizio di logica: l'intensità e l'effetto di un'esperienza come quella appena vissuta dallo spettatore non dipendono certo dalla lotta contro la gravità di una trottola che continua a girare. Mestierante di lusso.
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