Si può amare il lavoro, la rigidità dei gesti obbligatori. Si può, altresì, godere del caos, dell'esitazione, della goffaggine, dell'errore. Si può amare la mancanza di scelta, si può perfino scegliere di non scegliere. In questo modo, ed in molti altri, "Manifeste Incertain" si muovi sui due territori, anche nel suo non essere veramente fumetto o romanzo, e neanche testo illustrato, oscillando fra testo ed immagine, quasi fosse solo una serie di frammenti sparsi, di storie, di citazioni, di dettagli storici, di aneddoti biografici. Come tracce di un naufragio avvenuto, dopo cui si raccolgono e si mettono insieme i pezzi rispescati al fine di costruire una qualche zattera. Una zattera su cui Frédéric Pajak se ne va alla deriva, galleggiando sulla Storia, dentro cui scruta per comprendere la propria, di storia, usando, a sua volta, il timone raffazzonato della sua propria esperienza, legato colle corde della sua timidezza paralizzante, per seguire una rotta immaginaria attraverso il passato. Convoca a sé, sulla zattera, Beckett, Céline, il pittore Bram Van Velde, il drammaturgo Ernst Toller, prima di abbandonarli per inseguire la stella di Walter Benjamin e i suoi anni fra Berlino e Ibiza, sballottati dal furore del secolo.
Le immagini non illustrano niente; piuttosto, vivono la loro vita trasportando sensazioni confuse. Un contrappunto, un modo differente di guardare. Danno inquietudine. I personaggi che ci vivono dentro hanno i tratti dissimulati, ci vivono come nascosti nell'ombra, a sottolineare come "Il luogo di nascita del romanzo è l'individuo nella sua solitudine".
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