“Aveva nove anni e il suo animo era pervaso in pari misura di dolore e di gioia mentre volava sotto le stelle e su una terra ammantata di luce lunare.”
I cavalieri dei Gabala è uno dei romanzi meno famosi si David Gemmell. Non fa parte di nessuna serie. Non è un libro dei Drenai, o di Jon Shannow, o dei Rigante, e nemmeno è ambientato a Troia. Non ci sono le sipstrassi, le pietre magiche che consentono, fra l’altro, di viaggiare fra i mondi finché non si esauriscono. A meno che qualcuno non le ricarichi, ovviamente, ma è una procedura che mi sento di sconsigliare.
Non è più in commercio, quindi chi non lo ha letto al momento della sua pubblicazione magari non sa nemmeno che esiste, ed è un peccato perché come sempre Gemmell è in grado di tenere i suoi lettori inchiodati alla pagina.
La storia in apparenza è semplice: alcuni cavalieri cattivi opprimono la gente comune e devono essere sconfitti, impresa lievemente complicata dal fatto che questi cavalieri sono combattenti terribilmente in gamba. Ma chi è buono e chi è cattivo, e quali sono i limiti del coraggio? Cosa bisogna essere disposti a fare per ciò in cui si crede? E ci si può riscattare dai propri errori?
Quelli di Gemmell sono romanzi, storie piene di avventure e di pericoli, di azioni coraggiose come di azioni vili, ma per chi ne ha voglia sono anche ottimi spunti di riflessione. Peccato solo che ormai in Italia i suoi libri siano introvabili.
Il nuovo incipit:
“Seduto davanti allo specchio, nella camera da letto situata al secondo piano, era intento ad abbozzare le linee del proprio viso: le guance scarne, con l’ossatura prominente, la fronte ampia e piatta, le orecchie dall’attaccatura eccessivamente arretrata, i capelli scuri che venivano avanti in ciocche ossute e disordinate, i grandi occhi color d’ambra dalle palpebre pesanti.”