Quando è malato, ogni uomo ha bisogno di sua madre; se non c’è nei paraggi, un’altra donna dovrà supplire a lei. Zuckerman si avvaleva della supplenza di quattro altre donne. Non aveva mai avuto tante donne contemporaneamente, né tanti dottori, né aveva mai bevuto tanta vodka, né lavorato tanto poco, né conosciuto una disperazione altrettanto selvaggia e sconfinata. Eppure aveva, a quanto pare, una malattia che nessun altro avrebbe preso sul serio. A parte il dolore: al collo, alle braccia, alle spalle, un dolore che gli rendeva faticoso camminare per più di qualche centinaio di passi e penoso anche star fermo a lungo nello stesso posto. Il semplice fatto di avere un collo, braccia e spalle era come trasportare qua e là un’altra persona. Se andava a far la spesa, dopo dieci minuti gli toccava tornar a casa di corsa e stendersi. Né poteva portare più d’una sporta leggera per viaggio, e anche questo peso doveva tenerselo abbracciato al petto, come un ottuagenario. Regger la sporta penzola dal braccio non faceva che peggiorare i dolori. Doloroso era anche piegarsi per rifare il letto.
Non meno doloroso era stare in piedi davanti ai fornelli, ad aspettare (senza niente di più pesante d’una forchetta in mano) che un uovo al tegamino si cuocesse. Non riusciva ad aprire una finestra, se ciò richiedeva un minimo d’energia. Quindi, erano le donne a spalancare le finestre per lui: gli aprivano le finestre, gli friggevano le uova, andavano a fare la spesa e, senza fatica, virilmente, gli portavano a casa i pesi. Una donna, da sola, avrebbe sbrigato tutte le faccende in un paio d’ore; ma Zuckerman non ce l’aveva più, una donna. Ecco com’era arrivato ad averne quattro.
Per star seduto a leggere in poltrona portava un collare ortopedico: un manicotto bianco, costolato, rivestito di spugna, che gli cingeva il collo per tener allineate le vertebre cervicali e impedire bruschi movimenti alla testa, e sostenerla. Tale sostegno e tale impedimento avevano l’ufficio di lenire il dolore che, da dietro l’orecchia destra, scendeva diritto nel collo e poi si diramava, sotto la scapola, come i sette bracci di una menorah capovolta. A volte il collare giovava, a volte no, ma portarlo era, in sé, tanto esasperante quanto il dolore stesso. Non riusciva a concentrarsi su nient’altro tranne che su se stesso dentro quel collare.
Il volume che aveva in mano adesso risaliva ai tempi di quand’era studente: un’antologia di poeti inglesi del Seicento. Sul risvolto della copertina, oltre alla firma e alla data in inchiostro blu, c’era una nota vergata a matita con la sua grafia del 1949, un aperçu da studentello che recitava: “I poeti metafisici passano con disinvoltura dal banale al sublime.” Ora, per la prima volta dopo ventiquattro anni, egli tornava a posare lo sguardo sulle poesie di George Herbert. Aveva tirato giù quel libro dalla scansia proprio per leggere “Il Collare”, nella speranza di trovare in quei versi qualcosa che lo aiutasse a sopportare il suo. Si ritiene comunemente che sia appunto questa una delle funzioni della grande letteratura: far da antidoto alla sofferenza mediante l’evocazione di un destino comune a noi tutti. Il dolore (come Zuckerman andava verificando su di sé) può renderti terribilmente primitivo se non è controbilanciato da dosi, costanti e regolari, di pensiero filosofico. Forse, da Herbert si poteva imparare qualcosa.
Autore: Philip Roth
Titolo: La lezione di anatomia
Genere: Letteratura internazionale
Data prima pubblicazione: 1983
Casa Editrice: Einaudi
239 pagine
Prezzo copertina: 17,00 €
EAN 9788806171827
Sinossi:
Il volume rappresenta il terzo atto della saga di Zuckerman, uno scrittore prostrato da una misteriosa malattia che condiziona tutta la sua vita.