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“Incipit”, ovvero chi ben comincia…

Creato il 03 ottobre 2014 da Signorponza @signorponza

Sono assai famoso per la mia sconfinata bontà, come avete potuto saggiare anche voi, visto che vi ho lasciato tempo fino a ottobre per terminare i compiti delle vacanze. Sono altresì famigerato per la mia inflessibilità, quindi mi aspetto che abbiate ripassato bene il programma dell’anno scorso per poter iniziare al meglio questa nuova tornata di abluzioni nei lavacri dell’antica lingua di Roma, perché va bene esser buoni però

“Incipit”, ovvero chi ben comincia…

Quale espressione migliore con cui iniziare questo nuovo corso se non “incipit“? La parola in questione è propriamente la terza persona singolare del verbo incipĕre, dunque ‘egli/ella/esso inizia’ e in tale forma si è cristallizzata nell’uso moderno perché di norma associata al titolo di un’opera; esempio canonico qui è quello della prime righe della Vita Nuova di Dante:

In quella parte del libro della mia memoria dinanzi a la quale poco si potrebbe leggere si trova una rubrica la quale dice: Incipit Vita Nova.

Questa espressione nasce dunque come termine tecnico degli studi letterari e filologici a indicare l’inizio di un’opera e tale valore conserva tutt’oggi, mentre per altri ambiti si preferiscono altre designazioni (ad esempio ‘attacco’ per il mondo della musica).

Se dunque di letteratura si tratta noi vogliamo adeguarci ripercorrendo insieme alcuni degli incipit più famosi della letteratura latina. Come la tradizione scolastica ci ha insegnato, se ci sono degli incipit degni di essere imparati a memoria sono quelli della grande poesia eroica, perciò anche in questo ci adegueremo, insinuandoci nei meandri dell’epica latina. Incominciamo con il poeta Ennio (239 – 169 a. C.), i cui Annales, poema che ha come filo conduttore la storia di Roma ripercorsa anno per anno (da qui il titolo), tennero la palma dell’epica finché non comparve l’Eneide di Virgilio. Ennio era nativo di Rudiae, città della Puglia, dove convivevano la cultura osca degli indigeni, quella greca dei primi colonizzatori e quella romana dei nuovi conquistatori, per questa ragione egli affermava con orgoglio di avere «tria corda» (‘tre cuori’). La coscienza della tradizione culturale greca era fortemente radicata in lui, come si vede dai frammenti del proemio degli Annales:

Muse che coi piedi calcate il vasto Olimpo

Vinto da un sonno lieve e tranquillo…

Mi sembrò di avere accanto il poeta Omero

Ricordo di essere diventato un pavone…

Il poema si apre con un’invocazione alle Muse (è la cosiddetta parte ‘cletica’, dal verbo greco kléo ‘chiamare’). Vorrei da subito sfatare un mito: con Ennio ci troviamo all’interno di una poesia già dotta e molto evoluta, che ha secoli di tradizione greca alle spalle, perciò sì, possiamo dire che le ‘Muse’ sono da intendersi qui come patrone della poesia, come ci hanno insegnato a scuola. Però c’è un però. Le Muse sono divinità, figlie di Zeus e di Mnemosyne, la Memoria, e in origine per questo erano invocate: il poeta antico, Omero ad esempio, si apprestava a narrare eventi ancora più antichi di lui e chiedeva aiuto alle Muse perché esse, proprio perché figlie di memoria, erano depositarie del ricordo dei fatti ormai dimenticati, erano quelle che sapevano come erano andate le cose, perciò il poeta chiede il loro aiuto per ‘sapere’ cosa dire, non perché il suo canto sia più bello.

Ottenuto l’aiuto delle Muse, Ennio svela subito al lettore come la pensa lui. Da bravo italo-greco egli è seguace della dottrina filosofica di Pitagora (la sua scuola era nata a Crotone), che ha uno dei suoi punti forti nella teoria della metempsicosi o trasmigrazione dell’anima. Addormentato, il poeta incontra il simulacrum (fantasma) di Omero, il quale gli rivela che la sua anima è trasmigrata in Ennio, dopo esser passata attraverso un pavone (animale simbolo dell’immortalità, perché si credeva che le sue carni non si decomponessero). Ennio, autore del grande poema epico sulla storia di Roma, si propone dunque come l’Omero di Roma, arrivando addirittura a teorizzare la presenza in se stesso dell’anima del più grande poeta greco, che voi direte cioè calmati un attimo.

“Incipit”, ovvero chi ben comincia…

Ma va beh uno come Ennio certe cose se le poteva permettere, del resto

“Incipit”, ovvero chi ben comincia…

Ahimè la storia non è stata generosa con lui e i suoi Annales, di cui conserviamo solo alcuni frammenti, sono andati perduti, soprattutto perché oscurati dal grande poema epico di quello che davvero possiamo considerare l’Omero di Roma, cioè l’Eneide di Virgilio (70 – 19 a. C.). Per par condicio devo confessarvi che anche l’Eneide se l’è vista brutta. Infatti Virgilio, sul letto di morte, chiese all’amico Vario Rufo di distruggerla perché non aveva ancora finito di revisionarla. Fatto sta che il cadavere di Virgilio era ancora caldo quando Vario passa l’Eneide all’imperatore Ottaviano Augusto che subito dà ordine di pubblicarla. Questo piccolo particolare, lo capirete bene, è per decreto ministeriale taciuto agli studenti, onde evitare commenti indegni di un’aula scolastica

“Incipit”, ovvero chi ben comincia…

o reazioni incontrollate che nuociano all’incolumità dell’insegnante

“Incipit”, ovvero chi ben comincia…

L’incipit dell’Eneide è sensibilmente diverso da quello degli Annales, mentre si ricollega in maniera decisa con quelli dei poemi omerici, Iliade e Odissea, in un certo senso fondendoli insieme, perché l’Eneide è sì, come l’Iliade, la storia di una guerra (quella dei superstiti troiani contro gli abitanti del Lazio), ma anche, come l’Odissea, la storia di un uomo che vaga per mare attraverso mille peripezie (Enea, in fuga da Troia alla ricerca di una nuova patria). Ecco il testo:

Armi canto e l’uomo che primo dai lidi di Troia

venne in Italia fuggiasco per fato e alle spiagge

lavinie, e molto in terra e sul mare fu preda

di forze divine, per l’ira ostinata della crudele Giunone,

molto sofferse anche in guerra, finch’ebbe fondato

la sua città, portato nel Lazio i suoi dèi, donde il sangue

Latino e i padri Albani e le mura dell’alta Roma.

Musa, tu dimmi le cause, per quale offesa divina,

per qual dolore la regina dei numi a soffrir tante pene,

a incontrar tante angosce condannò l’uomo pio.

Così grandi nell’animo dei celesti le ire?

Come abbiamo già detto, l’incipit di ogni opera letteraria, soprattutto nell’antichità, assume grande importanza, è sede privilegiata in cui l’autore rivela ai propri lettori i temi principali, dichiara i propri modelli, dà sfoggio nella miglior maniera possibile del proprio stile. Ai due temi di cui abbiamo già parlato, quello della guerra (armi) e di un eroe (l’uomo), Virgilio aggiunge, rispetto al suo modello Omero, quello della glorificazione di Roma (le mura dell’alta Roma): l’Eneide è il grande poema epico voluto dall’imperatore Augusto che dimostri la missione universale di Roma, che trovi nella storia delle sue origini la prova che gli dèi benedicono il suo impero. Il tema di Roma è così centrale da far slittare al v. 8 l’invocazione alla Musa che in Ennio troviamo invece come prima parola dell’opera.

Ultima chicca: abbiamo detto che alla morte del suo autore l’Eneide doveva esser ancora revisionata e ci pensò l’amico vario Rufo a mettere a posto alcune cosette prima della pubblicazione. Tra questi aggiustamenti, secondo una tradizione antica, ci sarebbe stata l’eliminazione dei quattro autentici versi iniziali del poema, che sarebbero stati:

Io, colui che un giorno sul semplice flauto intonai

Canti e, uscito dai boschi, promossi nei campi vicini

L’ubbidienza al colono per quanto esigente

– la cosa piacque a chi regge l’aratro – terribili ora di Marte (canto le armi…)

Sarebbe stato dunque cancellato questo incipit biografico (se fossimo in classe vi insegnerei a dire ‘autoschediastico’) dove Virgilio rievoca le sue due opere precedenti: le Bucoliche, raccolta di carmi pastorali, e le Georgiche, poema dedicato alla vita dei campi e all’allevamento degli animali.

Ci lascia un po’ straniti, in tutto questo clima di leccaculaggio celebrazione, l’assenza di una dedica, ma nonostante ciò l’incipit dell’Eneide costituirà un modello per secoli, in particolare per i poemi epico-cavallereschi del quattrocento (qui però la dedica era obbligatoria altrimenti finiva davvero male), come l’Orlando Furioso di Ludovico Ariosto:

Le donne, i cavallier, l’arme, gli amori,

le cortesie, l’audaci imprese io canto,

che furo al tempo che passaro i Mori

d’Africa il mare, e in Francia nocquer tanto…

E soprattutto la Gerusalemme Liberata di Torquato Tasso:

Canto l’arme pietose e ‘l capitano

che ‘l gran sepolcro liberò di Cristo.

Molto egli oprò co ‘l senno e con la mano,

molto soffrì nel glorioso acquisto…

anche qui si inizia con la guerra (arme) e l’eroe (capitano), e poco dopo segue l’invocazione alla Musa:

O Musa, tu che di caduchi allori

non circondi la fronte in Elicona…

Bene raga scusate per la mia prolissità ma quando si parla di epica il mio cuore batte come davanti a un open bar e se ora mi tratterete come Naomi fece con la sua colf potrei capirvi, ma ricordate che lo faccio per voi, perchè quando incontrerete l’uomo o la donna della vostra vita possiate lasciarlo/la a bocca aperta con questi discorsi affascinanti

“Incipit”, ovvero chi ben comincia…

salvete et valete!

L'ora di latino


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