Molti penseranno che domenica Renzi abbia perso l’aura di invincibile perché è stato troppo Renzi. A me invece sembra che lo sia stato troppo poco. La sua è stata una sconfitta più narrativa che politica. A essere andato in crisi è il racconto con cui l’anno scorso aveva sedotto un Paese stufo dei soliti riti e delle solite facce. Quel racconto prometteva di sostituire i mandarini del Pd con una leva di giovani amministratori locali come lui. Il partito della Nazione, capace di prendere voti a destra e a sinistra, doveva essere il partito dei sindaci. Innovativi, pragmatici, conosciuti e apprezzati sul territorio.
Ma, arrivato al potere, il sindaco Renzi ha rinunciato a coltivare i suoi omologhi, riducendo il governo e l’Italia a un gigantesco programma televisivo di cui si considera il presentatore unico, tutt’al più affiancato da una collaboratrice preparata e accudente. Il guaio è che, anziché un Renzi o una Boschi, nelle urne i liguri si sono ritrovati Raffaella Paita, il prolungamento scolorito del governatore uscente. E i veneti la debolissima Moretti, al cui confronto il leghista Zaia sembrava Metternich. Mentre i candidati che hanno vinto – Rossi, Emiliano e il chiacchierato De Luca in Campania – non sono stati scelti dal premier, il quale li ha subiti come un male necessario.
Renzi si sente Messi, ma per tenere l’Italia dovrà diventare Guardiola, uno scopritore e coordinatore di talenti. Il mito dell’uomo solo al comando funziona soltanto finché comanda appoggiandosi ai migliori. Se rinuncia a farlo, il mito svanisce e rimane l’uomo. Solo (Massimo Gramellini - La Stampa)