“Imparo a vedere. Non so perché, tutto penetra in me più profondo e non rimane là dove, prima, sempre aveva fine e svaniva. Ho un luogo interno che non conoscevo. Ora tutto va a finire là. Non so che cosa vi accada…”
(R.M. Rilke)
Quando incontri un fotografo come Francesco Faraci inizi a guardare il mondo in un altro modo. Gli occhi si allargano, diventi più attento ai contorni delle cose, alle forme e a ciò che muta forma. Inizi a sezionare porzioni di orizzonte, intuisci che l’universo intero può entrare in un rettangolo. Soprattutto ti accorgi che le storie più belle non si devono inventare né cercare lontano. Il famigerato concetto di “straniamento” (Verfremdung: l’unica parola tedesca che hai memorizzato mentre preparavi gli esami di Storia del Teatro) diventa chiaro d’un tratto: “osservare gli estranei come se fossero conoscenti, ma i conoscenti come fossero estranei ” (B. Brecth) . Non so se funziona così con ogni fotografo, ma frequentare Francesco significa adattarsi ad alcune regole: una passeggiata non è mai una semplice passeggiata, prendere un caffè non è mai solo “prendere un caffè” (soprattutto non è mai solo UNO!….), e stare tranquillamente seduti a parlare in un luogo aperto – che sia una strada, un bar o uno scoglio davanti al mare- è impresa ardua. Anche nel mezzo della più profonda delle conversazioni, se si crea attorno una qualche “situazione” gli occhi partono da soli, seguiti istintivamente dai piedi…
Conosco personalmente Francesco da meno di 100 giorni, ma ho visto più di 100 sue foto. Molte però le avevo viste prima di cento giorni fa. Significa che in qualche modo lo conoscevo già? Probabilmente si, e questo è uno dei paradossi della fotografia, o almeno di un certo modo di intenderla e praticarla. La fotografia (la poesia, il teatro) è un mezzo con cui puoi scegliere se nasconderti o rivelarti, e a volte capita che nonostante tutti i tuoi sforzi per nasconderti, per lasciar spazio all’oggetto del tuo lavoro, vieni “smascherato” da chi parla la tua stessa lingua.
Le foto di Francesco sono il contrario dell’auto-celebrazione, parlano d’altro, d’altri, ma in una maniera talmente viscerale da indurre anche l’osservatore più distratto a farsi domande sul loro autore: Chi c’è lì dietro? Chi è il testimone di questa scena? A chi appartengono questi occhi acuti che hanno spiato da dietro un mirino come dal buco della serratura? Che ci facevi su quel tetto diroccato? Come ti sei arrampicato? Con chi eri? Chi ti ha portato a vedere queste gabbie? Chi ti ha aperto? Come sei entrato in questa casa?….Le sue foto raccontano a volte momenti talmente privati, talmente intimi, spudorati, che in qualsiasi altro caso verrebbe da pensare che scattarle sia stata una violazione, un sopruso. Incredibilmente con Francesco questa sensazione scompare. Nessuno di questi scatti lascia dubitare che fra il fotografo e i fotografati ci sia stato un incontro pieno, un contatto profondo: assenza di giudizio, scambio alla pari, fiducia reciproca, amore.
Il circolo che ne deriva è inevitabilmente virtuoso: l’empatia fra il fotografo e la materia della foto diventa empatia fra la foto e chi la osserva, ma anche fra osservatore e fotografo. Cosi come nel teatro il contatto pieno fra attore e personaggio (pieno e “straniato” allo stesso tempo) crea l’empatia fra attore e spettatore. Il personaggio è solo un medium, come lo è la foto.
“Dal frutto riconoscerete l’albero” si dice nel Vangelo: posso anche non conoscere Francesco di persona, ma guardo le sue foto e so chi è. So cosa gli interessa del mondo e cosa no, so da che parte sta. Con un minimo di sensibilità in più posso spingermi oltre. Guardare le sue foto e capire che libri ha letto, che studi ha fatto, che posti frequenta, se porta o meno la cravatta, quanto siano pulite o sporche le sue scarpe, chi sono i suoi poeti preferiti, che musica ascolta, come sceglie le sue amicizie, in cosa crede, per cosa è disposto a lottare, quante volte ha pensato di lasciare Palermo e che cosa gli impedisce ogni volta di farlo, posso intravedere e leggere in filigrana anche il suo passato, le sue ferite, la sua storia, la sua rabbia, i suoi sogni.
Non ho bisogno di chiedermi se per campare fa anche foto di moda o di matrimoni. Ma posso facilmente dedurre che la fotografia non è per lui un hobby o un “secondo lavoro”, perchè è evidente che i legami di cui parlano i suoi scatti richiedono tempo, il tempo della relazione con un quartiere, con una comunità, con dei ragazzi, un tempo che è fatto di costanza, di fedeltà, di esserci ogni giorno, col sole e con la pioggia. Un rito che si deve ripetere, paziente e umile. Il tempo: l’ingrediente indispensabile di ogni opera d’arte. Questione affascinante, su cui dibattiamo da mesi. Francesco mi fa invidia e lo sa. La capacità di sintesi che sa raggiungere con la fotografia è qualcosa che attore e scrittore possono solo invidiare. Scriveva Pasolini a Guttuso: “Beato te che quando prendi la matita in mano scrivi sempre in versi! Chi dipinge è un poeta che non è mai costretto dalle circostanze a scrivere in prosa. Ti trovo fratello proprio in questo: nella disperata premeditazione di fare sempre poesia.” Ogni giorno con un semplice “clic” Francesco scrive il suo verso, un verso perfetto, di cui potranno potenzialmente godere migliaia di persone ogni volta che vorranno. Io impiego mesi a preparare uno spettacolo, per un incanto che dura un’ora, per un incontro unico e irripetibile con una trentina di spettatori per volta….Tanto tempo sprecato, apparentemente….eppure quanto tempo serve a lui per aspettare che ogni cosa sia al posto gusto? Perchè è questo che avviene nelle sue foto: per una frazione di secondo si crea ordine dove un istante prima e quello dopo regna il caos. Ordine nel brulichio discorde di un mercato, di una piazza, di un caseggiato o di una spiaggia-discarica. Uno “stop” nella furia del movimento, una pausa nell’irrequietezza: quella interiore soprattutto, quella di un cuore caldo, in tumulto. E si affaccia allora l’illusione del controllo, di una ri-creazione…“Non sono un fotografo!” continua a ripetermi Francesco. Come io continuo a ripetergli che non sono un’attrice. Perchè scatta foto allora? Cosa cerca? Quello che cerchiamo tutti: relazioni. Un concetto semplicissimo eppure rivoluzionario: avere qualcosa da comunicare a qualcuno che voglia ascoltare.
Fino al 18 gennaio trenta di queste foto si possono ammirare a Palermo al Teatro Garibaldi, nella mostra “La Palermo degli ultimi” assieme ad altrettante di Giacomo D’Aguanno, in un geniale accostamento che risulta essere estremamente teatrale. C’è la scena di Giacomo (scarna, vuota, immobile) e ci sono i personaggi di Francesco che la abitano: paesaggio urbano (o sub-urbano) e paesaggio umano; luce (per dirla con Bufalino) e lutto.
Devo correggermi però: le foto di Francesco non si “ammirano”, si interrogano. Che ci fai sola a terra, bimba mia? Che segreti vi state raccontando, picciotti? Che futuro ti aspetta, neonato dagli occhi grandi che penzoli dalle spalle di una giovane straniera? Quali sogni ha lasciato nel suo paese la tua mamma? Quale orgoglio vuoi ostentare, tu, ragazzotto che mostri questa pancia prominente? E voi, perché guardate il fotografo con questo misto di sfida e scherno? Come si chiama il tuo cane, piccolina? Chi ti ha regalato questa bambola? Quante volte sai lanciare la palla senza farla cadere?… È tutto talmente vivo, presente, palpitante! E’ come una magia: queste foto, lungi dall’essere mute, gridano, gemono, esultano, bisbigliano, e, lungi dall’essere ferme, fremono, scalpitano, fuggono, saltano, giocano, corrono. E hanno anche odore, più spesso puzza: di marcio, di chiuso, di immondizia, di sporco.
Verrebbe da chiedersi -visti i soggetti- se le foto di Francesco nascano con un intento “politico” o di “denuncia sociale”. La mia opinione è che questi siano effetti secondari, corollari inevitabili di ogni opera che sia nata da una necessità molto più intima e personale. Non credo più che esista qualcosa etichettabile come fotografia politica (o teatro politico). Che cosa dovrebbero denunciare le sue foto? Qualcosa che non è forse sotto gli occhi di tutti i palermitani intellettualmente onesti? Sarei curiosa piuttosto di sentire i commenti dei turisti, o di spettatori che spero potranno vedere questo allestimento anche fuori dalla Sicilia. Li immagino esterrefatti e increduli, li immagino convincersi di aver visto una mostra di foto d’epoca, del dopoguerra, di una Palermo di 50 anni fa… Ecco forse in che cosa consiste il valore politico e “di denuncia” di queste foto: una didascalia impietosa, che ti dica che sono state scattate l’altro ieri…
di Preziosa Salatino.