Chiunque abbia dimistichezza con il cinema sa che è un mondo grosso modo diviso in due: sopra una ristrettissima casta composta da gente famosa, ben pagata (anche troppo), in cui si trovano sia talentuosi professionisti sia una pletora di amanti, figli di, raccomandati politici, amici di amici che svolgono le loro mansioni al meglio delle loro capacità ma non è in virtù di queste che vengono ingaggiati. Sotto questa casta un’ampia platea di giovani, precari, sotto-pagati, non-pagati, sfruttati, composta da artisti incompresi, giovani in attesa di essere scoperti, ambiziosi in cerca di gloria, che sono fuori dal cerchio dorato sia perché spesso non hanno le capacità sia perché altrettanto spesso sono privi delle chiavi magiche che aprono le porte giuste. A priori nessuno sa (o può illudersi di non sapere) se la sua esclusione sia dovuta ad incapacità o a mancanza di giuste conoscenze. L’Italia è un paese talmente corrotto da lasciare ad ognuno il dubbio sulla propria categoria di appartenenza.
Fuori da questi due mondi c’era sempre stata solo una manciata di autori indipendenti che in solitudine, con caparbietà, spesso senza alcun giusto riconoscimento economico aveva perseguito la propria idea originale di cinema fottendosene dello star-system. La possibilità offerta da questa società ad un sempre maggior numero di persone di poter “lavorare” senza essere retribuiti ha fatto crescere a dismisura la platea di chi si applica al cinema pensandolo non come un lavoro ma una passione, in attesa magari che lo diventi un lavoro. Ma la vasta presenza di questi lavoratori, che potremmo definire “no-profit”, in aggiunta ai raccomandati profit ma “no-talent”, ha fatto crollare un altro parametro di giudizio (uno dei peggiori parametri ma pur sempre un parametro) della qualità del lavoro: il compenso. In questo contesto a dir poco sconfortante si sono inseriti da alcuni anni diverse esperienze di produzione e distribuzione indipendente del cinema che avrebbero dovuto avere il ruolo di rompere le barriere di accesso al contesto del cinema “vero”, quello dove si prendono i contributi statali, si accede ai finanziamenti privati e si ha visibilità sui media. Era del tutto sottinteso che il motivo di questo sforzo organizzativo sarebbe dovuto essere quello di portare nella filiera industriale cinematografica nuove intelligenze che avrebbero dovuto rinnovare, arricchire, rivoluzionare il cinema della “casta”. Ma evidentemente quello che era sottinteso per chi scrive non lo era affatto per chi lavorava a queste imprese. E non sto pensando solo a quelle più grandi o più note ma ad una vastissima generalità.
Infatti se si fa un giro tra le riviste di critica cinematografica, nei festival del cinema indipendente, presso le nuove esperienze produttive o distributive (grandi, piccole, individuali) si nota un proliferare di cinematografia di bassissimo livello. Non tanto dal punto di vista tecnico che si avvantaggia delle potenti tecnologie digitali a basso costo ma dal punto di vista espressivo e contenutistico. E sia detto con chiarezza, questo è anche un problema generazionale, i cosiddetti “giovani” (anche se ormai anche i 50enni riescono a sentirsi giovani) nella stragrande maggioranza dei casi non hanno nulla da dire, non hanno nessuna proposta politica alternativa, sembrano anestetizzati da anni di fiction di bassa qualità e di assenza di pensiero politico. I giovani puntano soprattutto sul cinema di genere (soprattutto horror e remake di b-movie) e sulla commedia, per presentare prodotti che nella migliore delle ipotesi sono patinate copertine che avvolgono elegantemente il nulla, in attesa che qualche satrapo della “casta” possa notarli e farli entrare nel mondo dorato. Alcune realtà indipendenti pensano che sia proprio dovere creare una dimensione che si auto-tuteli nell’attesa di essere cooptati nel main-stream. Certamente una nuova casta più giovane, più di sinistra (apparentemente), più scolarizzata può fare più simpatia di quella vecchia, corrotta, ignorante e reazionaria. Tuttavia se il nuovo non sfida il vecchio sul piano dei contenuti ma punta semplicemente alla sostituzione delle facce allora è un’operazione del tutto inutile per la società. Ed è molto probabile che a questo “nuovismo” sia anche impossibile vincerla questa partita, sia perché il livello qualitativo dei prodotti di intrattenimento main-stream è già molto alto sia perché un certo ricambio di nomi, seppur viziato e frenato dalla modalità cooptativa, esiste pur sempre.
Quello che serve non è solo un nuovo modello di produzione ma anche una grande rifondazione critica del cinema. Solo da nuovi contenuti possono partire nuove produzioni cinematografiche in grado di affermarsi, pur come meno risorse economiche. Chi dovrebbe prendere l’iniziativa di questo rinnovamento? Certo non la critica cinematografica che ormai sembra quasi morta. Inaspettatamente la risposta sembra arrivare da tutt’altra direzione. Da qualche tempo stanno prendendo piede delle strutture di crowdfunding del tutto orizzontali, basate quasi esclusivamente sul web. E’ una modalità priva di un’intelligenza centrale che organizzi l’intero sistema produttivo ma che punta ad aggregare in una rete estesa le risorse molecolari diffuse. Al momento si tratta solo di una modalità di finanziamento ma potrebbe essere auspicabile estenderla anche alle altre fasi di produzione e di pre-produzione. Si tratta di un terzo segmento intermedio che non punta ad imitare i modelli produttivi delle grandi produzioni ma al contempo rifugge anche il cosiddetto 0-budget. Che, tradotto in termini di consenso, significa sottrarsi al “ricatto” monocratico del produttore ma anche evitare il solipsismo dell’autore che ignora il consenso di ogni pubblico. E’ un contesto che si sottopone al giudizio preventivo di un pubblico che lo finanzia, sebbene sia un pubblico selezionato e ridotto. E dall’osservazione empirica dei risultati si evince che spesso la qualità cinematografica e la ricchezza dei contenuti che vengono fuori da queste iniziative è sorprendentemente coraggiosa e innovativa al punto di meritare una maggiore attenzione e distribuzione. E’ questa forse l’innovazione democratica e intelligente del mondo indie che si attendeva dalla Rete?
Pasquale D’Aiello