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La disoccupazione giovanile in Italia ha superato la soglia psicologica del 30%, il mancato contributo delle donne nel mercato del lavoro vale in negativo almeno l’1% del Pil e le previsioni per il 2013 non sono affatto rosee. Questi pochi dati pesano come un macigno e rappresentano, in una certa misura, il senso di frustrazione per l’ennesima occasione sciupata. Il 2012 è stato l’anno dei tecnicismi alla bisogna, che hanno sì permesso all’Italia di rifarsi il look in sede comunitaria, ma in compenso hanno reso i cittadini più incerti e scettici. La fiducia dei consumatori nell’ultimo mese dell’anno è crollata e qualche strascico inevitabilmente lo porterà con sé anche in seguito. Intanto possiamo rifiatare: a inizio 2013 daremo finalmente l’addio definitivo alla più sgangherata legislatura della Seconda Repubblica. La sfiducia delle famiglie e dei singoli cittadini non può, infatti, essere derubricata ad un mero indicatore economico, poiché consta di altri fattori che ne influenzano le scelte quotidiane. E ciò è avvenuto a tutti i livelli. Gli scandali politici all’ombra della Regione Lazio o del Pirellone, le angherie di tesorieri di ventura e i ritardi, per lo più voluti, che di fatto hanno rallentato le riforme tanto auspicate, delineano un arco temporale – il 2012, appunto – poco lusinghiero. L’Italia presenta nel suo insieme molte lacune, che nessuno in cinque anni ha tenuto a colmare. Questo che si sta per concludere, invece, sarebbe dovuto essere l’anno della svolta. In verità i tecnici, i cui meriti sono tuttavia evidenti, hanno a loro volta rallentato laddove sarebbero dovuti essere più incisivi. Si pensi al riordino delle Province, ai tira e molla continui sul ddl corruzione, ad una legge sulle carceri che è rimasta lettera morta. I partiti, in un anno, hanno evitato accuratamente di mettere mano alla legge elettorale, nonostante i richiami di Napolitano.Si dirà, probabilmente a ragione, che molti tecnici hanno tergiversato per opportunità politica in vista dell’imminente voto. Si dirà, sempre a ragione, che modificare un assetto sulla carta inviso, ma in fondo conveniente, non avrebbe recato vantaggi a nessuno. La ridiscesa in campo di Berlusconi, la sesta in vent’anni, è un’anomalia tutta italiana così come anomala appare la salita di Mario Monti. Che però presenta analogie con un passato vituperato, eppure così attuale, ammesso e non concesso (poiché già smentito dai diretti interessati) che gli eventuali esiti elettorali obblighino progressisti e moderati ad un’alleanza che trovi ragione di esistere nel contrasto alla demagogia e al populismo berlusconiani (oltre che grillini). L’esperienza del governo Monti – seppur con i suoi difetti (valga un caso per tutti: gli esodati) – non è da buttare. Negli ultimi dodici mesi si è tornati a parlare di economia, del lavoro. Da una prospettiva accademica, vero, ma meglio del buco con il nulla intorno del periodo precedente. Ora sembra essere tornati indietro nel tempo, alla destra contro la sinistra, ai complotti e ai poteri forti. Il Pd, gliene va dato atto, è l’unica forza squisitamente politica che ha tentato di innalzare il dibattito. Ma è troppo poco, per un Paese che si era ripromesso di cambiare davvero.
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