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Biblioteca dell'Accademia della Crusca
Un governo che per fare cassa non esita a proporre la soppressione di un’istituzione di prestigio internazionale come l’Accademia della Crusca, con il suo insostituibile ruolo di studio, tutela e valorizzazione della lingua italiana, è il più adatto ad accompagnare il nostro paese al declino che lo aspetta. Poco importa che, a seguito della protesta generale, il ministro dei Beni Culturali abbia sentenziato: «troveremo la soluzione per non far morire questa istituzione storica». Anche se quelle pronunciate sono parole che fanno sperare in un ripensamento, almeno fino alla prossima manovra, il segnale di disinteresse assoluto nei confronti della cultura è evidente.In questo clima non stupiscono affatto i risultati di uno studio pubblicato su una rivista che si occupa di politica della scienza, la Research Policy, compiuto da Cinzia Daraio dell’università di Bologna e Henk Moed dell’università di Leida, dove si legge che l’Italia si attesta agli ultimi posti, in Europa, per numero di ricercatori attivi e per investimenti pubblici e privati. Se gli economisti stimano nel 3% del prodotto interno lordo (PIL) gli investimenti minimi che un paese dovrebbe sostenere per essere economicamente competitivo, ripartiti in 1% di investimenti pubblici e 2% privati, solo lo 0,4% della ricchezza prodotta viene destinato alla ricerca scientifica dallo stato e lo 0,6% dalle aziende.
Non sorprende, quindi, scoprire che il nostro 1,0% d’investimento complessivo è poca cosa in confronto all’1,7% medio europeo, all’1,8% della Gran Bretagna, al 2,2% della Francia, al 2,6% della Germania e al 3,2% della Svezia e che fuori dall’Europa esistono paesi grandi come l’Italia, come la Corea, che in pochi decenni sono arrivati a investire in ricerca e sviluppo ben il 3,4%.
Quello che scopriamo nella ricerca di Daraio e Moed è che, per la prima volta da trent’anni a questa parte, è cominciata a calare drasticamente la produzione scientifica italiana. Nel 2009, anno più recente di cui si possiedono i dati, siamo passati da 52.496 a 40.670 articoli pubblicati su riviste internazionali, un crollo del 22,5%. E tutto fa pensare che i dati del 2010 e del 2011 non siano più confortanti. Ma il fatto più sorprendente è che tale calo sia cominciato solo nel 2009. Ci si aspetterebbe, visti i dati precedenti e il fatto che il disinteresse delle classi dirigenti nei confronti della ricerca scientifica ha radici lontane nel tempo, che la produttività degli scienziati italiani fosse in calo da decenni. Invece no.
Studiando alcuni indicatori bibliometrici nel periodo che va dal 1980 al 2009, Daraio e Moed hanno scoperto che, nonostante le risorse destinate alla ricerca siano state sempre piuttosto esigue e costanti e il numero dei ricercatori non sia cresciuto, la ricerca italiana ha avuto una produttività notevolissima, sia dal punto quantitativo che da quello qualitativo, con un exploit nel periodo 2000-2008 con un aumento del 60%.
Laboratori Nazionali del Gran Sasso - progetto ICARUS
Malgrado i governi che si sono succeduti in questi decenni, non ultimo quello in carica, gli studiosi italiani che non sono andati via, respinti da un sistema incapace di trattenere le intelligenze che forma, si sono attestati come tra i più produttivi al mondo. Grazie a un impegno straordinario hanno compensato gli annosi difetti strutturali del sistema italiano e fatto a meno della scarsa attenzione di chi decide in merito alla politica della scienza.
Ma a tutto c’è un limite. «Abbiamo difficoltà a competere sui fondi europei per la ricerca», afferma Cinzia Daraio, «portiamo a casa meno di quanto versiamo. Gli altri paesi fanno piani ventennali e influenzano le scelte della Ue, noi ci ritroviamo con i professori a fare fotocopie degli scontrini per le note spese da presentare a Bruxelles».
Anche l’entusiasmo per la scienza e il genio italico prima o poi soccombono. Basta avere pazienza.
pubblicato su Cronache Laiche