Pecco di indifferenza, lo so. È la stanchezza o forse la mancanza di luce, ma non si pecca di indifferenza. Ho imparato da bambino che l’energia dell’universo scivolava via in lampi di luce radioattiva e poi in calore, nel nero disperso dello spazio. La chiamavano entropia, la fredda, inesorabile tendenza del tutto a ridursi in niente. Ma fino a quel momento, in cui la somma dei nostri sforzi, del battito delle ali dei cigni, del movimento dei satelliti, del pulsare delle stelle non si ridurrà a zero, fino a quel momento non si pecca di indifferenza. Se no è come dare ragione all’entropia. Che pure arriverà pingue e immane, ma non ora e non qui.
Allora cerco di combatterla questa indifferenza. Anche se ciò che è in alto è come ciò che è in basso, tutto concorre al mistero dell’unità. Certe volte la contemplo come seduto al centro di una città di rovine. Cosa resta di essa? Solo muretti che tracciano le strade, un tempo affollate, eppure ancora visibili. Quelle strade ricordano che le rovine non sono mai immobili e non sono immobile io nelle rovine. La dinamica sembra contraddire l’indifferenza, anche se bisogna trovare un senso a questo muoversi incessante. Finché non arrivi l’entropia. O finché non si rovesci.