Hu Jie
La nascita
Il cinema Indie Cinese nasce anche nella Repubblica Popolare Cinese come nel resto del mondo sul finire degli anni Ottanta; ma con ben altre dinamiche.
Infatti, il percorso formativo a cui gli aspiranti registi avevano potuto partecipare fino a quel momento, era più ridotto nel tempo rispetto a quello che in Occidente si stava vivendo: in altre parole, le scuole di cinema avevano ripreso la loro attività da poco più di una decina d’anni, a seguito di quella che venne chiamata apertura ad opera di Deng Xiaoping. Di conseguenza, in quel momento, nella storia e nell’immaginario di questi esordienti mancavano esempi stimolanti che andassero al di là di quel circa cinquantennio di cinema di propaganda omogeneizzato che la Cina sia era fino a quel momento sorbita. Inoltre, per quanto infatti il digitale sia arrivato anche in questa parte di Oriente, la velocità di diffusione e i tempi hanno avuto degli sviluppi propri filtrati dal sistema economico e sociale: basti pensare al fatto che il mercato delle videocassette, in Cina, non si è mai veramente diffuso nel modo in cui noi lo conosciamo. Questo rilancio ritardato ha ancora oggi visibili conseguenze sulla qualità tecnica media della produzione a basso budget, e chiaramente si fa maggiormente sentire sulle opere degli esordienti.
Pertanto quando gli artisti hanno iniziato ad accorgersi che esisteva un cinema realizzabile al di fuori delle linee ufficiali di mercato, i componenti di questa forza operativa risultarono particolarmente eterogenei: c’erano certo coloro che approdavano al video come scelta primaria, perché la loro aspirazione era quella di raccontare storie tramite l’immagine in movimento. Ma c’erano anche coloro che vi confluirono per cercare una forma espressiva più libera di quelle classiche, già ampiamente sorvegliate dal Governo. Il controllo dei media, anche in seguito alla cosiddetta apertura, non ha mai smesso di esistere seppure si sia modificato nel tempo. Ciò ha reso la vita difficile alla letteratura, alla pittura e a tutti quegli agglomerati di artisti tipici dell’aerea di Pechino che producevano arte in varie forme; ancora oggi esistono, sebbene si spostino di continuo un po’ come comunità nomadi, e sono i “villaggi” artistici (come Songzhuan o il 798).
Un esempio di artista che ha iniziato la sua esperienza filmica più come una ricerca artistica sperimentale perché in effetti nasce come pittore, è Hu Jie, uno tra i documentaristi cinesi che più tra tutti si è mosso nel panorama indipendente: il suo primo lavoro documentario infatti risale al 1995 quando ha voluto documentare, guarda caso, lo sgombero in atto nel villaggio artistico di Yuanming, dove risiedeva in quanto pittore. Da quel giorno fino ad oggi, l’immagine in movimento ha rappresentato per lui la forma principe di documentazione del nascosto e dell’intrattabile per i media ufficiali. Per alcuni, egli è considerato il primo documentarista storico cinese.
A causa di questa caratteristica di esclusione, di lateralità, l’accezione di “indipendenza” in Cina si è spesso legata ad un concetto di ribellione. Tutta la prima produzione filmica di cineasti che ad oggi hanno ben poco da spartire con l’indipendente, è stata in principio condannata perché trattava argomenti che non sarebbero mai stati ammessi nelle altre arti; invece, sfuggivano in un qualche modo se raccontati in video, e molto spesso le condanne di queste opere sono arrivate a posteriori, quando il film cioè era già bello che affermato. Quasi banalmente, si vuole citare l’esempio di Zhang Yimou: il regista non ottenne certo un facile consenso censorio ai suoi primi film (Sorgo Rosso, 1987; Judou, 1989; Lanterne rosse, 1992; La storia di Qiu Ju, 1992; e non ultimo Vivere!, 1994). Tuttavia, ad oggi è l’emblema di una Cina ricca e di un cinema da grande schermo, grande platea e grande budget: non a caso, suo è il film più costoso della storia della produzione cinese, I fiori della guerra (2011). Quanto è rimasto del regista esordiente nel Zhang Yimou di oggi? …questa è un’altra storia.
Wang Hongwei
Se sei indipendente allora sei ribelle
Tornando a noi, il binomio univoco indipendente-ribelle tende a non essere più efficace per la situazione attuale: oggi alle caratteristiche della produzione indipendente si è aggiunta la sperimentazione, la complessità narrativa, la volontà di proporre tematiche e generi non commerciali o magari, di temi diffusi offrire visioni meno commerciali. Da un rapido sguardo, non pare così impossibile sistemarsi nell’indipendente: la produzione cinese, che nell’ultimo biennio in particolare pare voltarsi verso i grandi mercati esteri sia per attrarre fondi che per fornire pellicole di successo, non è così varia. I film wuxia (arti marziali) con aggiunta di effetti speciali la fanno ancora da padrone, uniti all’invasione degli effetti speciali importati da Hollywood e contornati da tutta una serie di produzioni brainless che hanno un po’ a che fare con i cine-panettoni italiani come pure con le commedie romantiche da cascata di miele (a tal proposito cito per dovere di cronaca il fenomeno del box office 2012, Lost in Thailand di Xu Zheng: 200 milioni di dollari). Di conseguenza, se un regista non vuole parlare di queste quattro cose che sono pure quelle che certamente piacciono al Governo, neanche a farlo apposta, è un indipendente.
Per fortuna quindi, esiste questo tipo di produzione; per fortuna cioè, ci sono registi che portano avanti quella che in futuro verrà ricordata come la storia del Cinema Cinese di questi anni (altroché le commedie con i cuoricini): tra i giovani cito Ying Liang e Diao Yinan, tra i “vecchi” della “Sesta Generazione” Lou Ye e Jia Zhangke, sebbene questi ultimi sia meglio considerarli in termini di indipendenza narrativa più che produttiva.
C’è qualcosa in comune con l’indie italiano, dove i creativi si trovano ad essere schiavi dell’indipendenza nel momento in cui non posseggono i mezzi sufficienti per poter realizzare la forma ideale dei loro progetti: se lavori in ristrettezza, allora sei indie, fratello. Ecco, come non citare Lorenzo Bianchini, un padrone di dimestichezza indipendente, quando evidenzia come non avere i soldi necessari ti porta ad essere “dipendente dall’indipendenza”.
Tuttavia, sappiamo bene che ciò contro cui si scontrano i filmmaker indipendenti cinesi è molto più di una situazione di ardua produttività. Non si tratta soltanto di essere fuori dalle linee produttive, di fare film con pochi spicci ed inventarsi come portare a termine il lavoro anche nelle scarsità: quel che c’è in Cina e che per nostra futura in Italia si percepisce lateralmente, è la mancanza di libertà, l’impossibilità di essere padroni delle proprie idee. C’è chi decide cosa si può dire e cosa non si può dire, c’è chi decide se il tuo film vedrà la luce o se tu, come filmmaker, avrai mai un futuro.
Shen Yongping stava lavorando su un documentario di indagine storica e civica: 100 years of Constitutional Governance, dalla fine della dinastia Qing nel 1911 (proclamazione della Repubblica) fino ad oggi. Intimato di interrompere questo così definito “business illegale”, Sheng Yongping si è intestardito nella sua battaglia: ha finito il film, ma il 4 novembre si è trovato ad affrontare un processo per il quale rischia 5 anni di prigione. Chiaro, era “libero” di decidere quel che fare e il suo esempio è uno di quelli abbastanza estremi. Volendone citare uno ancora più estremo, ovvero, la storia di un perseguitato, parliamo di Du Bin: il suo fortissimo documentario sulle torture del campo di rieducazione di Masanjia, Above the Ghosts’ Heads: The Women of Masanjia Labor Camp gli è valso un mese di detenzione nell’estate del 2013.
I documentari sono oggi tra le produzioni più “delicate” in termini di censura. Prendiamo Ying Liang, uno tra i registi più brillanti e meno capiti in patria: vince un premio prestigioso a Locarno nel 2012 per un film che viene, immediatamente dopo l’esordio, censurato in Cina, When the night falls (2012). A seguire, l’autore viene intimato di non rientrare in Cina, la sua famiglia e la famiglia della moglie minacciate. Oggi vive ad Hong Kong. Il film citato è un documentario, ma la sua opera passa anche da titoli di fiction, come gli indimenticabili Taking Father Home (2005), The Other Half (2006) e Good Cats (2008).
La Middle Class
Ying Liang introduce perfettamente una categoria di filmmaker Cinesi che potrebbero essere definiti come la Middle Class: si tratta di autori che hanno realizzato prodotti di estremo valore ai margini dell’industria cinematografica, ma il cui futuro non è rimasto marginale. Con questo non si intende dire che immancabilmente tutti i temi scelti da questi autori siano necessariamente gli espulsi della narrazione; piuttosto che in questo gruppo sono inclusi anche coloro che, come i casi sopra, hanno affrontato privazioni personali della libertà di parola e azione pur si poter raccontare l’innominabile.
Sono i Festival internazionali poi, che hanno avuto un ruolo protettivo, riconoscendo a queste opere una dignità artistica tramite premi e clamore mediatico. Automaticamente, quelli che prima erano artisti dalle identità confuse diventano autori di primo piano, circondati dall’attenzione del pubblico a dall’encomio della critica internazionale. Talvolta questo ha creato ripercussioni sgradevoli in patria, altre volte continua per questi autori la militanza nel settore indipendente; altre volte ancora questo gli è valso una conquista di spazi, di credibilità, di possibilità di finanziamento. Ecco questa Middle Class è rappresentata da coloro che hanno guadagnato una credibilità estera ma che rimangono a latere del mainstream a causa della scelta (volontaria o meno) di operare in ambito indie. Ciò a cui mi riferisco non è necessariamente il trattamento drastico riservato a Du Bin o Ying Liang, ma si tratta piuttosto di una opposizione silenziosa che impedisce a questi autori di raggiungere le sale. La loro distribuzione, in seno alla Cina, può avere due strade: le sale certo, ma in numero contenuto e per periodi ridotti, oppure la via della militanza tra Festival e circuito underground.
Mi piace ricordare a tal proposito il bell’esempio di Lou Ye, un regista che ha alternato periodi di divieto professionale imposto (Summer Palace gli è costato 5 anni di cartellino rosso!), ad altri di carica creativa, e finalmente abbiamo potuto apprezzare nei cinema la sua ultima opera, vincitrice dell’Orso d’Argento al Festival di Berlino, Blind Massage (2014). Ma se prendiamo d’esempio un altro film presentato alla stessa edizione del festival, No Man’s Land di Ning Hao (2013), la situazione è diversa: ci sono voluti quattro anni affinché il final cut soddisfacesse le richieste del visto di censura. E poi, al botteghino ha conquistato oltre 3 milioni di dollari la sola sera di apertura. E così anche per Jia Zhangke, che a livello mondiale è indiscutibilmente riconosciuto come un pilastro della produzione creativa cinematografica della Repubblica Popolare Cinese, ma che ancora in patria si scontra con la diffidenza censoria: Il tocco del peccato (2013) vede la luce solo in seguito al successo ottenuto a Cannes. Ribadendo, è chiaro che esiste uno scarto economico tra le possibilità di registi navigati come Jia Zhangke o Luo Li (mai sentito nominare? Probabilmente in futuro…).
Ying Liang
Autocensura e temi
Ora, la situazione è molto meno chiara e ben più elastica di quanto riassunto sopra. Ma questa categorizzazione ci aiuta a comprendere quanto meno perché esistano registi che si muovono solo nel main, altri che vi oscillano a piacimento e altri ancora che al main non riescono ad accedere: talvolta per scelta, talvolta perché si cade nella morsa del Governo per un passo falso. È un po’ quello che è successo a tutti coloro che hanno anche solo velatamente appoggiato il movimento Occupy Hong Kong: cantanti, scrittori, registi si sono visti smantellare la propria arte, cancellare i propri interventi da internet, annullare le comparse pubbliche per il solo fatto di aver magari postato una foto o un commento. Provvedimenti presi con la motivazione di “slealtà verso la patria”.
Insomma, essere autore in Cina vuol dire anche questo: sapersi autocensurare se non si vuole entrare in un pericoloso gioco delle parti. Quindi la scalata compiuta da Zhang Yimou che da regista spalle-al-muro è diventato imperatore del mainstream, non è una questione di sola qualità artistica. Si tratta anche di un compromesso che riguarda le scelte tematiche, il dialogo con l’istituzione censoria e la condotta pubblica stessa. Che sia possibile che una volta raggiunta la fama di cui Zhang Yimou gode, si possa osare di più? Non saprei garantirlo, il suo esempio non lascia grandi speranze: quando il regista è stato scoperto padre di sette figli, in aperta, spalancata, violazione della Legge del Figlio Unico, gli è stato chiesto di pagare una copiosa multa. Sebbene risulti quanto mai grottesco che uno possa accidentalmente e improvvisamente essere “pescato” padre di sette figli… Possiamo forse considerare la sua ultima opera Ritorno a casa (2014) un velato tentativo di rappresentare i tabù della Cina negli anni della Rivoluzione Culturale, nascondendoli dietro alla storia d’amore tra i due protagonisti? Personalmente, ritengo ci sia troppo perbenismo ed edulcorazione per poter rappresentare una volontà di reale filologia storica; tuttavia, è evidente che tanto più di questo, al fine di restare nell’ammissibile, non sia possibile rappresentare. Ecco, l’autocensura è pienamente operante ed è quindi necessaria se si vuole continuare a restare nella ruota dei budget vertiginosi e soprattutto, avere accesso alle sale cinesi.
Tuttavia, come dicevo poco più sopra, la funzione indipendente=ribelle ha perso la portata del principio. Negli ultimi anni molti i registi, nel tentativo di non finire nella morsa governativa da un lato e per reale necessità espressiva dall’altro, si stanno concentrando sempre più sui discorsi che interessano l’identità delle persone, nelle sue più varie forme, un tema che la fa davvero da padrone nelle produzioni della Repubblica Popolare Cinese di oggi. Questa libertà tuttavia è relativamente recente, dal momento che ai registi della cosiddetta Quinta Generazione non era così facilmente concesso di trattare la riflessione sull’Io; mentre invece l’atteggiamento di oggi pare più quello di elasticità verso la sfera individuale, magari al fine di dimenticarsi di altri macrolivelli problematici.
Abbiamo perciò una larga produzione che riguarda le identità negate dalle condizioni di lavoro: migranti o lavoratori delle grandi aziende, la cui vita dipende dagli estenuanti orari di fabbrica e il cui tempo libero si svilisce di ogni energia ed interesse. Esistono poi altre trattazioni legate al concetto di individuo nella città, dove quindi la ricerca di identità si associa agli spazi, così destrutturanti e impoverenti (recente ed ermetico, su questo tema, l’opera di Yang Zhengfan, Distant). A seguire si sta assistendo poi ad una rivalutazione del concetto di individualità culturale, per cui le minoranze che risiedono nel territorio della Cina hanno iniziato ad elaborare una riflessione in funzione della salvaguardia delle tradizioni. Rientra in questa categoria il lavoro di Gu Tao, nativo dell’Inner Mongolia; tra gli ultimi, il suo toccante The last Moose of Ao Lu Gu Ya (2013), dove la storia di Weijia è il simbolo di una società sradicata che conduce alla perdizione.
Ciononostante, come si può ben immaginare, alcune di queste “identità” rientrano nella categoria dei temi caldi, per cui Tibetani e Uiguri hanno libertà di parola limitata. Ma cosa succede esattamente a queste produzioni? In altre parole, questi film a piccolo budget, prodotti a volte da una task force tra produttore e regista che diventano anche montatore e operatore, come incontrano il pubblico se alle sale proprio non hanno accesso? (Fine prima parte)
Rita Andreetti