ANTONIO VITTORIO GUARINO (Napoli, 1985). Vive ad Avellino. Ha pubblicato: La Vita Beota (Ed. Il Foglio Letterario, 2009) e La caduta dalla giovinezza (Onirica edizioni, 2011). Sue poesie sono presenti su riviste e antologie. Ha partecipato al collettivo SINE, un progetto che mira ad integrare e a far interagire parola poetica, musica elettronica e video-arte.
***
Quando tutte le nostre parole saranno deportate in terra straniera,
prelevate a forza dalle case, dai libri, dalle nostre lingue porose,
una ad una e una dietro l’altra, come un filo da tirare fino a che,
disfatta la trama, non si riveli inutile l’ordito intessuto ad arte,
di segni, fonemi, concetti alternati nella serie, pensieri…,
ci sveglieremo nell’indicibilità del mattino lasciandoci abbagliare
dal sole senza nome, ed ogni cosa, liberata, verrà a noi nel proprio
mistero; avremo paura di questo mondo nuovo, ma, finalmente,
vedremo la sproporzione in cui siamo nati.
*
Pensa ai quadri, un perimetro di rifugio
dove l’immagine è riassunto del tutto
e miliardi di piccoli segni vanno a comporsi,
solidificarsi nella scalarità del dettaglio:
dall’infimo all’enorme, l’insignificante macchia
che si fa forma del reale. Gli oggetti, specie
nella solitudine, privati di relazione,
mostrano il loro significato, o meglio sono
mostrati come del tutto vuoti, inutili, quasi
spogliati della materia. Questa povertà
manifesta, non compresa, è il limite di ogni
discorso sul mondo, la negazione di una
ragione intrinseca alle cose. Tutto, qui,
muore, tutto, qui, è fermo anche se mima
il movimento. In definitiva i corpi
sono sempre e solo carcasse inermi,
ossa ottuse senza spiragli, senza
profondità in cui si possa discendere
come in un pozzo artesiano: qui
Alfredino non è caduto, qui nessuno
si è calato per salvarlo: il contenuto
è inesistente e la scatola è spianata
in modo da non poter ricevere nient’altro
che la luce. Del resto, in principio,
lo Spirito aleggiava sulla superficie.
*
Se cammino lungo la spina dorsale,
con alla gola una nausea che affiora
senza uscire, come un male che
non riesco a cacciare – dalla bocca
una parola…
Mi rifugio in libreria. Simone Weil
attende Dio dalla parte sbagliata. Con il peso mi
piego verso Heidegger; vedo Essere e Tempo
sospeso, in bilico sullo scaffale. Il primo termine
è risucchiato dal secondo: l’essere è il tempo,
questo è il male.
Tutto costa troppo e la merce resta invenduta.
La verità ha un prezzo che io non posso
pagare. Infilo nella tasca vuota
un libretto nero schiacciato fra i poli –
la copertina è austera –; .
non ho coraggio e di nuovo lo lascio
lì, anzi, lo nascondo, come un tesoro
che solo io potrò trovare, il giorno che
non avrò riguardi per la mia reputazione.
Chi si lascerebbe umiliare?
Chi vorrebbe essere finalmente sbugiardato?
Sotto la maschera, l’urgenza di verità ci divora,
ma non facciamo mai quel passo che sarebbe la rovina,
per la nostra vita, e al tempo stesso la liberazione.
Di scatto le mani vanno al volto, le dita toccano
la superficie. Esco, ho le lacrime agli occhi.
Non so dove sostare. Cammino, cammino,
cammino… Sotto i piedi le foglie emettono un suono
dolce, consolatorio. Attraverso la città
piena di bar e sale scommesse.
Alzo lo sguardo, e mi ritrovo dove potrei
essere trovato.
Mi fermo, come ad aspettarti.
Tutt’intorno c’è un silenzio di quaderni,
e vorrei vederti uscire da quella porta
per essere visto e raccontarti
tutta la miseria,
così che il tuo sguardo
sia l’ultima parola.
*
Ben vengano questo cuore sporco al centro
e il pazzo che sa dirmi buongiorno –
immagino sia sunto, il suo saluto,
di tutto il dicibile, sopravvissuto come segno,
scaglia di legno della santa
croce che porta a spasso, in testa –
nonostante il mondo non abbia niente
di buono.
Ben vengano i piccioni che beccano
le nostre attese alle stazioni, sulle panchine
con libri aperti a vuoto, il noi e il noi che non
siamo più/mai stati, i lati convessi del cranio,
Cartesio che lo ha riempito di cogito, il coito
interrotto delle strade, le guerre sopite
nei calici tra i visi, le capitali messe a ferro e fuoco
dal capitale, i detriti
delle esplosioni che si azzuffano in cielo
come spari prima delle processioni.
Ben venga la parola, che divora, muta e moltiplica
diventando parole, rete, frasi, discorso sul mondo,
mondo e silenzio intorno – sempre mandando
lettere in avanscoperta, senza risposta.
Ben vengano le contraddizioni, le crepe,
le anomalie, le regole,
le siringhe, le indifferenze,
la cura che perdura nella carezza alla mela caduta.
Ben venga Parmenide, monolito dell’Essere,
ed Eraclito, pietruzza dilavata da diverse acque.
Ben venga questo incrocio di spazio e di tempo
dove sosto io e penso che anche se non fossi
tutto questo comunque sarebbe
deposito, lascito, seme che fermenta
nella piega piaga di un’altra coscienza
alla mia identica, chimera composta
da due vocali che non fanno dittongo,
eppure nello iato si incontrano.
Ben vengano l’autismo del cosmo,
il frizzare degli asteroidi che si sciolgono
come aspirine nel bicchiere.
Ben venga ciò che nel rimanere
ci supera e sopravvive: l’inizio e la fine.
*
Nottata, che è più che notte – in un cumulo l’accumulo
accrescitivo della carne, l’accesso bloccato dall’ascesso.
La pustola feriale non dorme, o, se dorme, resta
in piedi come cavallo. Leggo la solidarietà di questi oggetti
messi sull’asse d’inerzia, resistenti ai mutamenti; lo spazio,
vasto, in stricto sensu delira, non sa dove, e il loco
per esso diventa questione esistenziale.
Quale parte è la mia parte? chiedo ad un letto
a due piazze, quindi a due città di cui una non esiste.
Un posto vale l’altro e ovunque mi rannicchi
poggerò sul nulla – la testa del figlio – dell’uomo.
Ora, nell’ora di dormienti in serie, di scatolame
e sonno sottovuoto, di mangime che galleggia sulla
superficie dell’acqua, affondo la faccia al centro
di una stoffa in ombra; sento un continuo movimento,
come una marcia di piccoli insetti – da morto
mi farò mettere dei tappi alle orecchie, penso.
Poi: E se Dio fosse un microrganismo,
come i batteri di Marte? Uno di quei
mostri che non vedi ma stanno dappertutto?…
Sarebbe impossibile scrollarselo di dosso.