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Inediti di Giovanni Ibello

Creato il 08 febbraio 2016 da Wsf

gioibe

Giovanni Ibello (Napoli, 1989) è giurista, praticante avvocato e giornalista pubblicista. In particolare, nel campo del giornalismo si è occupato prevalentemente di sport, letteratura e ambiente. Alcune sue poesie sono state pubblicate sui seguenti lit-blog: “Poetarum Silva”, “Carteggi Letterari” e “La poesia e lo spirito”. Inoltre, un suo approfondimento in merito alla poesia di Giovanna Bemporad è stato ripreso da Carte Sensibili nel settembre del 2013. Scrive, in veste di redattore, per la rivista WSF.

***

Non parlo di silenzio ma di vuoto,
del rumore che fa l’acqua mentre
scola in un reticolo di nodi e feritoie.
Perché è sempre un discorso sul venire
meno, il venire meno delle cose.
Le maledette parole. Per questo
io rinuncio alla materia, penso
al mare sfigurato dalle scie
dei mercantili cinesi. Preferisco
celebrare questa lenta eutanasia
con il corpo imperlato di sudore
e gli occhi sgranati sopra un prato
di stelle al led e maiali sgozzati, riversi
su di un fianco. Poi un frinire di insetti
sulle mani e io che mi guardo le mani
e penso che malgrado tutto il male ricevuto
“io non ho paura” perché non c’è più tempo.
Non c’è tempo. Non c’è mai stato veramente
il tempo di chiedere perdono. E’ questa
la condanna, il vero peccato originale.

*

Di quello che sognavi veramente
non resta che un silenzio siderale
una lenta recessione delle stelle
in pozzanghere e filamenti d’oro,
il riverbero delle sirene accese
sui muri crepati delle case.
Così dormi e non vedi, e manchi
il teatro spaziale delle ombre.
Il desiderio è l’ultimo discanto.
Ma quanti gatti si amano di notte
mentre l’acqua scanala nelle fogne.

*

Una luce rossa si flette nel cielo,
la carcassa di una poiana
è riversa sulla neve.
Così penso che è facile morire
c’è solo da capire bene
che significa “lasciarsi andare”,
seguire la scia, la trama
degli ultimi pensieri.
Tenersi per mano, piangere,
cercare di non farsi vedere,
tirare su col naso, reidratare
la bocca, articolare due parole,
sapere che le pause
valgono di più quando si muore.
Ma il fatto di esistere davvero
solo nel momento della resa
mi fa guardare in faccia dio
gli uccelli, i pesci, gli eterni assenti,
la pietà degli uomini impotenti.

*

Nella quiete del sonno
il gatto passeggia sul tuo corpo
e squarcia la parete che separa
la chimera di oriente
dalla luce verde e gialla dei suoi occhi.
“Perché nessuno si appartiene veramente?”
Quando l’alba si posa sui tetti
lui fa un balzo sullo stipite della finestra.
“Nemmeno il vento fa rumore”, pensa.
Solo un rospo si muove in giardino
e senza volerlo disegna cerchi nell’acqua
mentre la luce discreta del giorno
sfolgora come una fiamma
nel mio seme ancora fresco
cosparso sul muro della stanza.
Il sole si odia perché non ci inganna.


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