Ucciderle non è difficile: si aspetta l’attimo adatto
quando sdrucciolano sul bordo del lavabo
o scivolano sul tavolo imbandito di briciole
e si lascia andare un colpo secco di strofinaccio
intensamente feroce.
La mosca è allora stecchita.
*
Non si fece baciare. Era l’ideale moglie dimessa.
Fuori nevicava ma lei non si lavò subito i denti.
Non voleva più quel marito
anche se la camera aveva le pareti color pesca.
Come in un racconto di Joyce
gli disse che non amava lui
ma quell’altro morto giovane.
Poi si lavò i denti.
*
Seguire i passi di Leopardi
in una Recanati assassinata dal sole
bestemmiando contro l’estate duemilatre
e il mare Adriatico merdoso che poltriva laggiù.
Leopardi nella carne nel sudore nelle mani
che stringevano i Canti inseguendo un fantasma di poeta.
Diventare gobbi poeti noi figli di Monaldo
pessimisti cosmici e granita al caffè.
*
Mangiò tre pesciolini.
Avrebbe preferito una balena ma Moby Dick era in vacanza
il Pequod al museo della letteratura americana
e Achab vomitava vino nel mare.
Mangiò altri tre pesciolini
e Conrad cominciò a toccargli un braccio
invitandolo a navigare davvero
e a non giocare più con le barche nelle pozzanghere.
Ingurgitò gli ultimi tre pesciolini
ma aveva addosso un costume bianco
e Melville s’incazzò di brutto
perché lui la balena l’aveva vista per primo
ma era vecchio e non aveva più vent’anni.
*
La carovana delle malinconie
I) Prima del passaggio
Una riflessione che non va giù,
e galleggia in gola, senza pietà.
La stazione deserta, spenta, inerte
e la noia distinta dell’ignoto
bacia i semafori verdi.
Ma i treni non sanno più muoversi, come me.
E allora io adagio questo mio tormentato presente
su una panchina di pietra, orlata di gomme annerite;
dormo tra una scritta ignota che reclama un amore,
e tra un’altra scritta, più in basso, che ricorda una data.
Ho lasciato il cuscino di là,
tra gli oggetti smarriti non reclamanti.
Non è stanotte come il sonno di casa:
il letto è una folla di dolori banali.
È troppo facile scrivere versi incostanti
osservando due binari infiniti
che la notte lucida illumina di angosce tiepide.
Si alzano le cartacce, ma non le temo,
e nemmeno mi spaventa la polvere:
solo le luci artificiali della città
incidono amarezze nella mia carne.
II) Durante il passaggio
M’illudo di possedere ogni cosa stanotte:
il buio, i bagagli di passeggeri invisibili,
la stazione che desidera treni audaci
in movimento verso di lei,
e la sala d’aspetto che da lontano
m’invita al caldo con l’occhio languido.
Ma quando finirà tutto questo?
Non so più distinguere tra loro
il primo e l’ultimo treno del giorno.
Il fanale di coda da quello di testa.
Solamente quando la noia entra nella mia bocca
i denti smettono di tremare; ho sonno, forse,
o forse non l’ho più, sono vivo perché stanco,
perché non ho chiuso gli occhi di fronte al mendicante
che dorme con me sotto questa panchina.
III) Dopo il passaggio
Mi alzo in piedi, solitario percorro il marciapiede solitario,
e le ore non passano più.
Nemmeno le angosce del quotidiano lo fanno:
le sento friggere sui fili dell’alta tensione,
ma non sanno morire, cattive.
Lento come le forze che tornano,
al mattino dopo il sonno,
un treno merci arriva, e spezza
la carovana della malinconie.
Le pagine bianche d’un libro
sono una compagnia che non scalda.
Nemmeno una donna, forse, basterebbe stanotte
per tenere a bada cervello e cuore,
in questa stazione rocciosa
che non è un letto, né un materasso di amarezze,
e nemmeno un sogno per psicanalista.
IV) Quel che resta della bile nera
Il treno merci è passato oltre, faticoso:
lontano il segnale è tornato rosso.
E rosse le mie guance, le mani, le nocche:
come quel taccuino che vidi a terra,
nell’atrio di un’altra stazione deserta:
piangeva parole che ho dimenticato,
da tempo.