L’ineluttabilità. La vita è così, ti travolge con immense gioie, ma anche con quelle che rientrano in ciò che viene comunemente definito come ineluttabilità.
E quando ti travolge con questa dannata ineluttabilità, sei dentro a un vortice di avrei potuto / dovuto. Ed è un casino. E’ un casino perché la maggior parte delle volte queste congetture di pensieri rimangono tali, perché non si ha più tempo, o semplicemente non è più il tempo per fare e recuperare ciò che ci si era promessi di fare, dire, compiere.
Questa sera la casa è un po’ vuota: sarei dovuta essere a una cena di un cliente, anche per non sentire troppo la mancanza del mio gitano in montagna a sciare con un suo amico. Invece no, ho lasciato che questo “sarei dovuta” scivolasse nel dimenticatoio perché la mia testa rimbomba di eco di parole non dette e di gesti non fatti.
Ho bisogno di silenzio. Forse anche di un albero illuminato, ma quest’anno va così, mi accontento della mia stella luminosa. Ho bisogno di silenzio, ho bisogno di sentire le mie lacrime, perché un dolore così acuto erano anni che non lo sentivo. Perché ciò che ho visto questa sera, in quella fottuta camera di ospedale faticherò a dimenticarlo.
Anzi, io non voglio dimenticare: perché sebbene doloroso, sarà anche uno dei ricordi più belli che avrò.
Sono andata ad abbracciare { per l’ultima volta, forse } Giulio, l’ex compagno di mia mamma. Con cui ho vissuto 10 anni. Con cui ho condiviso la mia mamma, la mia casa, le mie vacanze, i miei dolori, le mie speranze, le mie gioie, dai 15 ai 25 anni.
Potrei raccontarvi che uomo speciale sia. Potrei dirvi come era bello sapere di tornare dai miei primi viaggi e trovarlo. Potrei dirvi quanto rincuorante fosse sapere che lui era lì, ad occuparsi della mia mamma, ad amarla, quando io proprio non ci riuscivo. A questo punto potrei aggiungere come più volte mi abbia salvato, facendomi da papà, ma con il vantaggio che lui ecco, non mi ha mai giudicato. Vorrei anche raccontarci di come con dolcezza sia entrato nella vita di tutti noi, nella nostra quotidianità. Di come ha fatto sorridere la mia mamma per anni, e non solo lei. Della sua mano calda sulla mia spalla e del suo sguardo orgoglioso quando raccontava di me, e degli altri suoi figli, e poi dei suoi nipoti.
Potrei raccontarvi tutto questo: ma poi dovrei anche raccontare quanto io mi sia chiusa verso di lui quando decise che la salvezza sua e di mia mamma stava nell’andarsene – le logiche dell’amore così complicate a volte, così intricate. Solo ora spalanco gli occhi su quello che è stato il suo ennesimo gesto di generosità.
Ecco e allora lui era lì, in questo letto di ospedale: lui che è sempre stato avvolgente era questa sera così debilitato dalla malattia. Sono entrata e per scacciare le lacrime ho iniziato a fare quello che mi riesce meglio: sparare scemate, per ridere insieme, per non pensare. Come quando ti scappa la pipì e per non pensarci ti pizzichi il braccio così che distogli l’attenzione da ciò che è primario. Tipo così.
Lui era lì e mi ha preso la mano e l’ha stretta. Sono passate 5 ore e io non oso lavarmi le mani perché non voglio togliere il suo calore dalla mia pelle.
Lui era lì e mi ha detto non smettere mai di lottare, combatti, non arrenderti. Ha guardato la foto di Ale e mi ha detto, vedrai andrà bene.
Ho sorriso, ha sorriso: ha sempre saputo della mia voglia di essere amata, accolta, protetta. Ha sempre saputo quanto male mi facevano gli addii, quanto ancora mi facesse male il divorzio dei miei. Ha sempre saputo tutto, e in silenzio ha sempre cercato di guarirmi.
Ero lì e pensavo, adesso crollo. Sotto il peso dei mille pensieri che mi stanno frullando nella mente. Ero lì e a velocità cibernetica ruotavano nella mia testa le pulsioni delle emozioni e dei sentimenti di chi amo, e dicevo Dio ti prego aiutami che io voglio solo esserci, essere nella vita di queste persone e rendere la loro esistenza migliore, perché li amo e non vorrei mai che pensassero che il mio tempo è scandito solo da incombenze e non dall’amore immenso che provo per loro. Ho pensato ad ogni mia mancanza: verso mio padre, verso mia madre, verso il mio compagno, verso i miei amici, verso mia sorella e mio fratello.
Pensavo all’ultima volta che ho visto Giulio – era Lanzo, pioveva, e mia madre era in ospedale. Lui passò mi abbracciò, e ricordo ogni momento di quell’abbraccio.
Prima mi ha detto anche l’importante è lasciare una buona impressione nella vita di chi amiamo, e io e te ci siamo lasciati una meravigliosa impronta.
Si ma avrei dovuto, avrei voluto, avrei potuto fare di più. Sarei dovuta venirti a trovare al mare. Avrei dovuto stare fuori dai problemi di coppia che ad un certo punto ti hanno allontanato dalla mia mamma.
Ma io sono così: prendo tutto di pancia. O con me o contro di me, ancora non ho imparato la via di mezzo.
Dio fammi smettere di piangere. Questo Dio che io professo il suo credo e quando vedo tutto questo dolore mi chiedo: dove sei? siamo tuoi figli, perché permetti così tanto strazio prima di richiamarci a te? E’ una sorta di purificazione, o espiazione dei peccati?
Che ne so. Non ne ho idea. So che ho una bolla di dolore immensa, che trova fine in se stessa, perché c’è poco da fare. E allora mi riempio la testa di nuovi farò/dovrò/ sarò.
E spero di essere all’altezza delle aspettative. Perché non può e non deve una mancanza richiamarci all’ordine verso chi amiamo. Perché il tempo deve bastare per amare bene chi decidiamo di amare e chi troviamo nella nostra vita. Basta scuse, basta dire troppo lavoro, troppe incombenze. L’unico nostro dovere è abbandonare ogni nervosismo e trovare il coraggio di fermarci, riflettere sui nostri errori, e portarci in salvo, dove la salvezza è solo amare di più e meglio.
Questo è un Natale strano. Un Natale sottotono, un Natale senza albero, un Natale in attesa dei Natali che saranno, quando forse ci sarà un tavolo di legno imbandito, candele bianche, un abete pieno di luci, e una grande famiglia – la nostra- intorno. Questo è un Natale di arrivederci: a questa piccola casa di 35 mq che ci ha accolto regalandoci serenità e gioia. A Giulio, un papà che non mi ha mai fatto mancare nulla. E un addio importante: a tutte le nostre scuse, ai nostri nervosismi, quelli che mi fanno buttare giù il telefono frettolosamente a chi amo. Perché la verità è unica: più della perdita, pesa tutto quello che si sarebbe potuto fare e non si è fatto. Tutto quell’amore trattenuto e respinto nei meandri delle nostre budella, perché si pensava che il tempo era poco e andava dedicato solo al dovere lavorativo.
Bisogna essere forti, ed essere forti vuol dire anche avere il coraggio di risettare le necessità. Prima che veramente sia troppo tardi.
Ecco cosa vi auguro questo Natale: il coraggio di mettere al primo posto – ancor prima del lavoro, della stanchezza, dei dovrei – la necessità di amare bene chi amiamo e chi decidiamo di accogliere nella nostra vita.