Qualche giorno fa, in occasione della Giornata contro la violenza sulle donne, ho visto il film di Fabrizio Cattani dal titolo Maternity Blues. Questo film non parla di violenza sulle donne, parla di donne sole e fragili che arrivano a uccidere i propri figli. Il titolo, Maternity Blues, fa riferimento a un malessere di cui soffre circa il 70% delle madri nelle due settimane successive al parto. Si tratta di donne che registrano instabilità emotiva, tristezza, frequenti crisi di pianto, difficoltà a prendere sonno, spossatezza estrema e timore di non essere in grado di prendersi cura del figlio. La causa del Maternity Blues è da ricercare nelle brusche variazioni ormonali e nella stanchezza fisica che seguono il parto. Ma nel 10% dei casi questo malessere “normale” si può trasformare in psicosi post-partum, una forma di depressione che può portare una donna, anche molti mesi dopo il parto, a uccidere il proprio figlio.
Questo è quanto hanno fatto le 4 protagoniste del film di Cattani che si ritrovano insieme a scontare la propria pena in un ospedale psichiatrico giudiziario, dove trascorrono il loro tempo espiando una condanna che è soprattutto interiore: il senso di colpa per un gesto che ha vanificato le loro esistenze, la sofferenza di leggere la propria colpa ciascuna negli occhi dell’altra, il tentativo di continuare a vivere la vita propria vita dopo aver tolto la vita alla creatura che avevano messo al mondo. Le motivazioni dei loro gesti sono varie: per Clara è stata l’assenza del marito che, tutto preso dai suoi viaggi per lavoro, non si è accorto della sua depressione; per Eloisa, una volontà di rivalsa nei confronti di un marito possessivo e violento; per Rina, ragazza-madre, la fragilità di non essere in grado di fare la madre; per Vincenza, la più grande delle quattro, il corto circuito nel ritrovarsi a crescere da sola numerosi figli. Vincenza è l’unica nel film a compiere un atto definitivo contro se stessa, suicidandosi.
Il film di Cattani tratta un tema drammatico con delicatezza e rispetto per il dolore altrui, non condanna e non assolve. Credo che questo sia un film importante, che ogni donna dovrebbe vedere. Io ho pianto molto mentre lo guardavo, ma forse questo è in questo consiste il suo valore più grande: questo film si presta a una catarsi, a una condivisione e libero sfogo della sofferenza interiore di cui oggi abbiamo disperatamente bisogno.
Il numero di donne che uccidono i propri figli sta aumentando ogni anno in modo esponenziale – nel corso 2010 ogni 20 giorni una donna ha ucciso il proprio figlio – e se ne parla poco e mai, a mio parere, nel modo giusto. I giornali e i programmi televisivi trattano queste donne come l’ennesimo mostro da sbattere in prima pagina. Nessuno che approfondisce, nessuno che si interroga a fondo sulle motivazioni di questi gesti estremi, apparentemente così innaturali. La maggior parte degli uomini e delle donne che non hanno avuto figli pensa che l’istinto materno sia naturale, scontato, anzi, obbligatorio. Mariti, genitori, suoceri danno per scontato che la donna che ha appena partorito stia passando il momento più bello della propria vita e che riesca per istinto a fare e dare il meglio. Non è così. Per la maggior parte delle donne il momento in cui si mette al mondo un figlio è il momento di massima stanchezza e fragilità della propria vita. C’è bisogno intorno di calore, di comprensione, di aiuto, di affetto, di dialogo. Gesti e sentimenti questi, che sono un’utopia, soprattutto nelle grandi città del nord, in cui ci si trova completamente sole, senza la famiglia, con poche amicizie, con vicini di casa con cui ci si saluta e mala pena, le strutture sanitarie completamente assenti e magari anche l’angoscia di perdere il proprio posto di lavoro “a causa” della maternità.
Qualche anno fa avevo scritto un film sull’infanticidio, rimasto nel cassetto. Si intitolava Volevo fare la tv e rappresentava un altro punto di vista sulla questione: quello degli stereotipi che plasmano le donne e rischiano di snaturarle completamente. Ispirandomi a un caso di cronaca, avevo parlato di una donna che aveva come priorità nella vita quella di essere bella e perfetta e di poter lavorare in televisione. Una donna che aveva il culto del proprio corpo e che avrebbe fatto qualunque cosa pur di entrare nella scatola mediatica. La maternità era stata solo un incidente di percorso e il figlio, voluto solo dal compagno, si era rivelato un fardello pesante di cui liberarsi il giorno in cui, finalmente, questa donna riceveva la proposta di un contratto per il suo tanto ambito posto in un programma televisivo …
Dice lo psichiatra Vittorino Andreoli: “C’è una cultura, un modo di stare insieme, di costruire le case, di pensare la vita, che può spingere a guardare un bambino come a un oggetto. Si allunga una mano e lo si prende, la si apre e lo si butta via”.
Non facciamo finta di nulla, altrimenti siamo complici con i nostri silenzi, i nostri stereotipi, i nostri pregiudizi. Anche se la parola infanticidio fa paura, parliamone.
Gio