“Inferni. Auschwitz Dante Laocoonte” – Peter Weiss

Creato il 27 gennaio 2014 da Temperamente

«Ho visto quella località vent’anni dopo. È immutabile. I suoi edifici non possono essere confusi con nessun altro edificio. Ha un nome polacco. Ma, per renderlo più comprensibile a coloro che risiedevano e lavoravano lì, il suo nome fu tedeschizzato». Scritti fra il 1964 e il 1965, i testi di Peter Weiss raccolti in Inferni. Auschwitz Dante Laocoonte (Cronopio, 12 euro) sono dotati di un valore letterario oltre che storico. Tra i massimi scrittori tedeschi contemporanei, Weiss, già autore de L’istruttoria, ricorda stavolta l’olocausto passando attraverso una rielaborazione di Dante.

Giunto alla stazione di Auschwitz, l’autore è investito dall’eco proveniente da quei luoghi: passi di stivali, urla di comando, gemiti e lamenti dei dannati sono ancora presenti nel campo. Aggirandosi per il lager, è infatti possibile scorgere le bacheche ricolme di montagne di capelli tagliati, le reliquie degli abiti infantili, le scarpe, le dentiere, e gli stanzini con le finestre oscurate, quelli in cui venivano bruciate le ovaie alle donne con i raggi X. Ecco allora che, dinanzi a questi scenari, Peter Weiss concepisce l’idea di un Dante contemporaneo che, dopo Auschwitz, riscrive l’Inferno, ambientandolo sulla terra e collocandovi, stavolta, gli innocenti.

«L’inferno è la paralisi, è il luogo dove non c’è più evoluzione, dove è esclusa ogni idea di cambiamento. L’inferno è la permanenza eterna in un penitenziario, in un manicomio».

Nel suo progetto di un dramma in tre parti sulla Divina Commedia, Weiss immagina un Dante che mostra i supplizi di quanti sono condannati per la loro razza. Ma il suo progetto era destinato ad arrestarsi: se è vero che in un teatro che si proponga di seguire la struttura dell’Inferno il materiale narrativo sarebbe smisurato, è altrettanto vero che con la polverizzazione dei corpi viene polverizzata anche la parola; che si smarrisce la possibilità di descrivere e di parlare. Come per i figli di Laocoonte, dunque. I quali, soffocati dai serpenti, non possono emettere che un urlo muto. E così anche per un narratore non resta che l’impossibilità di proferire parola: «Non era più possibile dir niente, e tutte le parole, di qualsiasi lingua, non avevano più senso».

Inferni di Peter Weiss è un saggio sul “dopo Auschwitz”. E, come molti intellettuali ebrei (fra i quali si potrebbe citare ad esempio Hans Jonas, autore del mirabile Il concetto di Dio dopo Auschwitz), anche Weiss ha rimarcato col suo lavoro i limiti del linguaggio e del pensiero dinanzi a un evento che definire “storico” sarebbe ossimorico; giacché l’ubicazione tutta terrena di Auschwitz ha messo in crisi l’esperienza della storia ebraica e contestualmente l’esperienza ebraica della storia.

 Andrea Corona

 Peter Weiss, Inferni. Auschwitz Dante Laocoonte, Cronopio, tessere, Napoli 2007, 110 pp., 12 euro


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