Da sempre le parti migliori dei romanzi di Dan Brown sono le critiche che si tira addosso. Anche per il suo ultimo lavoro letterario, Inferno (Mondadori, 2013), ho trovato enormemente più diletto nel leggerne le recensioni, quasi unanimi nel stroncarlo, che nel portare a termine l'opera vera e propria. Lo scrittore americano suscita la verve delle penne più brillanti che anche in questo caso gli hanno gettato ortaggi verbali degni della migliore tradizione recensionista.
Era nel torto chi diceva che "Fare a pezzi è il lavoro di chi non sa costruire" o che "La critica è la potenza dell'impotenza". Il livore (causato naturalmente dall'improvvida fortuna commerciale per un autore così mediocre) è un sentimento come un altro e che come gli altri può generare ottimi risultati se adeguatamente maneggiato. Dal canto suo l'autore del best seller Inferno presta volentieri il fianco agli attacchi con dichiarazioni pre-release alla stampa come queste: "Io leggo quasi esclusivamente saggi perché voglio che la lettura mi insegni sempre qualcosa. Per qualche strana ragione, i romanzi mi piace solo scriverli". E tale deleteria pratica per un narratore di thriller fa sì che sia nel giusto Jake Kerridge del Telegraph quando scrive che "Come scrittore, Brown diventa sempre meglio: dove una volta era terribile, ora è solo molto povero".
Inferno è infatti un thriller che usa meccaniche superate da tempo ma che ha l'ardire di presentarle come se fossero appena state catalogate, stilemi action che il cinema e la letteratura hanno fagocitato e digerito da almeno un secolo ma che l'autore porta alla tavola dei suoi numerosi lettori come se fossero primizie culinarie. Il libro comincia con, in esergo, un velocissimo riassunto compendiato da Dan Brown in poche righe dell' Inferno di Dante e che coincide, parola per parola, con quello espostomi entusiasticamente dal mio amico pizzaiolo dopo aver giocato a Dante's Inferno: "L'Inferno è il mondo dei dannati descritto nella Divina Commedia, il poema di Dante Alighieri, che rappresenta il regno degli inferi come una struttura elaborata, popolata da entità chiamate "ombre", anime condannate al castigo eterno".
Il prologo successivo è composto da quattro pagine in prima persona dal taglio prettamente accumulatorio: misteri e tensione per la fuga di una persona avulsa, almeno momentaneamente, dalla trama principale. Arriva il primo capitolo e siamo subito in medias res, col famoso professore di Harvard, specializzato in simbologia, Robert Langdon preda della più classica delle amnesie e delle conseguenti visioni nebbiose. Ho voluto esemplificare in maniera figurativa il primo problema di Inferno: l'ultimo romanzo di Dan Brown chiede la sospensione dell'incredulità di fronte a una sequela ininterrotta di tecniche narrative molto stantìe. L'unica fuga da questo profluvio di banalità è cercare ilare e complice appiglio in chi si è divertito a smontarne alcune sulle varie testate. Da parte mia mi limito a notare l' excusatio non petita di Dan Brown di fronte a una delle debolezze strutturali più forti del genere thriller e cioè la disseminazione di indizi da parte del terrorista biologico. Ad un certo punto della caccia Sienna Brooks chiede a Robert Langdon perché Bertrand Zobrist corra volutamente il rischio di farsi sabotare il diabolico piano. Ed ecco la risposta del professore, di una rozzezza psicologica che soltanto nei film di serie B a stelle e strisce degli anni Ottanta si poteva sentire: "Per due motivi: il primo è che è pazzo. E il secondo è che Dante considera l'orgoglio il peggiore dei peccati: questa è la rovina di ogni eroe archetipico nella letteratura classica. L'umanità deve sapere che è stato lui a progettare il suo sfoltimento".
Dimenticavo che il villain del romanzo è appunto un cattivo malthusiano che vuole fornire una drastica soluzione al problema della sovrappopolazione. Questa trovata letteraria dovrebbe essere abolita dalla Convenzione di Ginevra in quanto rappresenta tortura a causa dell'uso smodato fatto negli anni da parte di autori in carenza d'idee. Su quanto Dan Brown creda davvero all'apocalisse demografica e alla necessità di porvi rimedio vi riporto solo un passo dei tanti che giustificano questa ideologia: "La Peste Nera sfoltì il gregge umano e preparò la strada al Rinascimento e Bertrand ha concepito Inferno come un moderno catalizzatore di rinnovamento globale, una Peste Nera transumanista, con la differenza che coloro che manifesteranno la "malattia", anziché morire, diventeranno semplicemente sterili". Il ragionamento di Dan Brown sintetizza in modo becero tesi di studio accademiche ben più complesse e fa largo ricorso a sintagmi agghiaccianti quali "sfoltire il gregge umano" e "semplicemente sterili".
Il vizio di rendere pop ricerche scientifiche serie è stato d'altronde il principale motivo di fama del suo libro più venduto, Il codice da Vinci. Anche la caratura della Divina Commedia di Dante non viene risparmiata dall'essere vista a posteriori con gli occhiali del marketing manager: "A seguito della diffusione del poema, la chiesa cattolica aveva assistito a una gigantesca impennata del numero dei fedeli grazie ai peccatori terrorizzati". Un altro riassunto for dummies della biografia del sommo poeta italiano si trova a pagina 130, un trattatello così superficiale da far passare anche i dantisti della domenica per colti esegeti. Questa ingenuità contenutistica ha il proprio correlato oggettivo nello stile che è quanto di più sciatto abbia fatto il già non eccelso Brown. E dire che le ambizioni di partenza erano ben alte e ben altre. Inferno aspirava nelle intenzioni a possedere l'attrattiva del miglior linguaggio cinematografico mutuando, ad esempio, la scelta di contestualizzare la vicenda in tre location dal sapore innegabilmente esotico per il lettore medio del romanzo, come Firenze, Venezia ed Istanbul.
Solo che lo scrittore americano ammannisce il (presunto) succulento menu con un eccesso di descrittivismo da turista estasiato. La narrazione viene continuamente inframmezzata da digressioni sui luoghi dove si svolge l'azione. Inoltre il linguaggio usato per far ciò è più monotematico di un depliant informativo: Firenze è artistica ad ogni anfratto, Venezia elegante ad ogni palazzo e calle, Istanbul multiculturale ad ogni monumento. Così tutta l'impalcatura cinematografica di base crolla su sé stessa per rivelarsi piuttosto quella di una fiction televisiva di basso livello. Si ha perennemente l'impressione di assistere a una soap opera: tutto è in scena, i personaggi esprimono con chiarezza anche le loro emozioni più basilari, vi sono perfino i monologhi pensanti dei protagonisti (non sia mai che il lettore riesca a dedurre autonomamente uno stato d'animo, meglio scriverglielo in corsivo). Insomma, l' Inferno di Dan Brown ottiene quello che minaccia sin dal titolo: fiamme eterne in chi vi si addentra.