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INFERNO: l’ossessione italiana di Dan Brown. E sulla genialità come conditio-sine-qua-non per scrivere, Stephen King docet. Anche Umberto Eco a dire il vero.

Creato il 09 giugno 2013 da Rosebudgiornalismo @RosebudGiornali

INFERNOdi Rina Brundu. Ha preso Dublinoby storm”. Cartelloni pubblicitari ovunque, per strada, sugli autobus, manco si trattasse del lancio dell’attesissimo “Independence Day 2”. Ma non si trattava di un film, no, tutto il “fuss” era per l’arrivo nelle librerie dublinesi del nuovo libro di Dan Brown “Inferno”. E del blockbuster, l’ultima fatica letteraria dell’autore del “The Da Vinci Code”, ha tutto, anche, e soprattutto il size. Un libro di 461 pagine fisicamente “sturdy”, robusto, solido. Peserà più di un chilo e almeno un ramo d’albero per ogni copia è stato senz’altro macerato per ottenere il risultato. Ma se il motto ispirante non è stato “Size does matter”, come avrebbero suggerito gli ispirati scriptwriters di “Godzilla”, possiamo senz’altro dire che l’eredità dell’Harry Potter della signora Rowling – meglio rappresentata dalla Sindrome un-eroe-che-vende-al-chilo – non è stata dimenticata dall’editoria statunitense rampante.

Tuttavia, nonostante mi fossi ripromessa di non cedere in tentazione davanti a quei messaggi pubblicitari che avevano detto addio senza rimpianti, e senza vergogna, alla maggior cortesia che un tempo usavano gli effetti subliminali, sono entrata in libreria, e ci sono entrata da peccatrice, sapendo insomma di avere già una colpa sulla coscienza (trattando, il libro di Brown dell’inferno dantesco, la similitudine non mi pare esagerata anche se poi, come vedremo, in tutta questa faccenda i peccati non sono soltanto i miei). Insomma, avrei potuto scaricare il file direttamente sul Kindle, salvare una piantina innocente in chissà quale piantagione dimenticata del mondo, e tornare a casa con la coscienza più tranquilla. No, al solito ho voluto strafare, ho acquistato il libro fisico e quel libro era “Inferno”. Fortuna ha voluto – quasi a significare che la possibilità di redenzione non è mai troppo lontana se la si cerca davvero – che sullo stesso scaffale campeggiasse l’ultima produzione dello scrittore statunitense di origine afgana Khaled Hosseini, “And the Montains Echoed”. Così, nonostante lo stesso Hosseini non sembri immune dalla fascinazione harrypotteriana (sempre in temini di size, intendo), ho comprato pure quel testo. Un libro che, mercé la sua qualità scritturale e le diverse atmosfere, cattura subito e che perciò va letto con altra attenzione, ragion per cui ne parlerò in altra occasione.

Torniamo invece a “Inferno” di Dan Brown. Non negherò che quell’incipit “I am the Shade. Through the dolent city, I flee. Through the eternal woe, I take flight”, mi ha subito indisposto. Ad indispormi è stato soprattutto il costrutto “dolent city”, ancor più della riproposizione in salsa browniana dell’incipit al canto III dell’Inferno. Sono tra quei lettori che pensa che Dante non bisognerebbe tradurlo, così come non bisognerebbe tradurre Shakespeare; insomma, ritengo che ci siano argomenti davanti ai quali anche l’editoria rampante di cui sopra, dovrebbe fermarsi, portare rispetto. Ma mi rendo conto che il mio approccio militare non vende libri e dunque muovo oltre. Del resto, i motivi che indispongono in “Inferno” non sono pochi. Che poi, il verbo “indisporre” arriva dove arriva e in realtà questo block-buster scritturale più che indignare intellettualmente ci propone uno status-quo di cui sappiamo da tanto tempo, ovvero che la grande letteratura è morta e sepolta. Then again, se io vado a cercarla in un testo browniano il problema non è con l’autore, che mi è pure simpatico, ma è tutto mio…

Che dire dunque della qualità scritturale di “Inferno”? La scrittura è semplice, ordinata, scorrevole e quindi soprattutto epidermica. Detto altrimenti, il segno rimanda ad un suo significato, univoco, inequivocabile, unidirezionale; detto brutalmente, invece, significa che quando Robert Langdon (l’eroe browniano), scende nel suo personalissimo inferno diversamente da Dante lo fa fisicamente, magari calandosi in una caverna, in un sottoscala, finanche in cantina a prendere il miglior vino di stagione. Il tutto, naturalmente, a discapito di una qualsiasi significazione più meditata che per ovvie ragioni non può esistere in un lavoro a metà strada tra una produzione fleminghiana e una parvenza di commitment all’Umberto Eco neppure troppo ispirato.

La scrittura browniana manca completamente (questo è un vizio di tanti scrittori d’oltreoceano però), di una sana applicazione di un’arte retorica complessa e di qualità ed è in questo senso ossimorica rispetto al maggior interesse dell’eroe Langdon, il quale eroe, essendo un professore di simbologia religiosa dell’Università di Harvard, dovrebbe almeno indurre il suo deus-ex-machina autorale a porre maggiore attenzione su questi argomenti. Questo per me è un flaw-scritturale-sostanziale, soprattutto perché Brown (a maggior spiegazione del size del libro di cui ho già detto), tenta di ovviare con il didascalismo. In altre parole il Dante raccontato in “Inferno”, la Firenze raccontata in “Inferno”, l’arte raccontata in “Inferno”, viene presentata alla stregua di una lezione universitaria del professore-eroe di turno, incollata al plot, creando un paratesto che prolunga la lettura nel tempo e nello spazio e che a lungo andare annoia. I cultori dello straordinario “Il nome della rosa” di Umberto Eco ricorderanno che una delle critiche mosse a quella formidabile creazione, furono le circa cinquanta pagine iniziali (pagina più pagina meno, non ricordo bene), che in guisa di saggio si impongono sulla parte iniziale del lavoro appensantendolo parecchio. La differenza con Inferno però è che quella strategia echiana è spazialmente collocata e tutto il resto del libro scorre dentro una precisa dirittura narrativa forte, didascalica a commando, che non lascia dubbio alcuno sulla padronanza dell’argomento da parte dello straordinario autore, il quale autore non abbisogna dunque di fare alcuno show-off rispetto alle tematiche trattate, mentre il dire, la storia, non importa quanto erudita, diviene grazie agli scambi degli immortali characters da lui creati. Ma che tipo di conseguenze misurabili comporta lo status-quo fin qui descritto? Importanti, purtroppo. E fanno tutta la differenza che esiste tra un testo intellettualmente vivace come è Il nome della Rosa è un booklet informativo sui-generis offerto al turista confuso in cerca di un acculturamento stile fast-food.

Per quanto riguarda la trama, in linea coi requirements del blockbuster letterario teorizzato nell’incipit, “Inferno” è una storia dura e pura dove il tratto browniano diventa elefantiaco rispetto a quanto si è visto in lavori quali “The Da Vinci Code” e “Angels and Demons”; e quindi ecco il solito incipit in medias res, con un Langdon smemorato, che non si raccapezza, un poco rincoglionito,  ecco le eroine belle e senza scrupoli, ecco le eroine belle e vittime-delle-circostanze, ecco le soffocanti profezie da doomsday, ecco le creazioni anagrammatiche da Sindrome della settimana enigmistica, ecco le entità misteriose determinate a conquistare il mondo inseguendo segnali arcaici e pseudo-letterarieggianti (prima è toccato a Leonardo, adesso tocca a Dante, temo in futuro per Lorenzo il Magnifico ma mi consola il pensiero che dopo di lui noi non abbiamo prodotto granché in tutti i sensi!), ecco i cicli di nascita-morte e resurrezione in salsa medievale e futuristica, ecco l’occhiolino strizzato alla scienza e alla tecnologia cutting-edge che però quando va a digitalizzare (in senso lato) Dante e la sua compagnia mi fa girare un poco le balle. Non manca neppure un tocco da italietta anni 50 – così come vista dal turista americano durante le sue vacanze roman… pardon, fiorentine – con i nostri schiamazzi per strada, la spazzatura nel cortile e la passione per il calcio ma questo, occorre dirlo, è un “peccato” veniale nell’autore dato che non fa che rappresentare la situazione corrente che in 60 anni non è cambiata di un tanto.

L’impressione che si conserva di Inferno quando, a fine lettura, si ripone il tomo sullo scaffale con una data forza? Per quanto mi riguarda, mi ha riportato alla mente il percorso letterario di Stephen King, il grande autore americano del genere horror. Un autore che nacque bistrattato dalla critica e bistrattato anche dal pubblico di bocca-buona che pur lo leggeva avidamente, ma il cui genio è riuscito, nel tempo, ad imporre la sua visione letteraria, il suo tratto, anche a livello accademico, senza sé e senza ma; il tutto grazie ad una produzione, anche questa elefantiaca, ma che in innumerevoli occasioni ci ha regalato testi geniali, straordinari, che sono stati trasformati in gemme cinematografiche da ricordare. Chapeau! I am afraid, con tutta la buona volontà, per quanto mi sia anche simpatico (questo lo ripeto nella perfetta convinzione che chi conosce il mio modus integralista di approccio alla critica letteraria, escluderà, a priori qualsiasi tentativo di captatio benevolentiae!), per quanto i suoi libri si possano certamente raccomandare per una piacevole lettura in spiaggia, e per quanto si affanni il suo ufficio stampa e pubblicitario, questo non si può ancora dire per Dan Brown. Insomma, a dispetto di quella memoria eidetica (fotografica), che Robert Langdon sembra spartire con il mitico Sheldon Cooper, il genio della fisica teorica creato dalla vena ispirata di Chuck Lorre e Bill Prady per la sit-com The Big Bang Theory, la strada è ancora lunga davanti….

In conclusione, Dan Brown non me ne voglia, ma il suo Inferno più che indurmi a meditare sul celebre ammonimento dantesco “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate” (Inferno, Canto III), debitamente citato dallo scrittore statunitense nel libro in questione, mi riporta alla memoria, il titolo di un altro immortale lavoro, la commedia shakesperiana “Much ado about nothing” (1598-1599), i.e. molto rumore per nulla, anche se naturalmente potrei sbagliarmi, tendo a farlo spesso….

Rina Brundu, in Dublino, June 9th 2013.

Featured image, Inferno by Dan Brown, 2013, cover.

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