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Informazione sarda e vecchie scarpe

Creato il 10 giugno 2014 da Alessandro Zorco @alessandrozorco

Brutte notizie per l’informazione in Sardegna. L’emittente cagliaritana Sardegna 1 ha completato la procedura di dimezzamento del personale iniziata il 1° febbraio scorso: dodici lavoratori sono stati licenziati. Non sono serviti due anni di contratto di solidarietà e 150 drammatici e lunghissimi giorni di sciopero. Tra il 31 maggio ed oggi la tv ha messo fine alla lunga vertenza dei lavoratori spedendo dodici lettere di licenziamento. Morale: i giornalisti che hanno sopportato per due anni un contratto di solidarietà per venire incontro all’azienda sono stati licenziati, nonostante stipendi arretrati non pagati e contributi non versati. E nello stesso tempo sono stati dati in appalto nuovi programmi a una società esterna. Non si dovrebbe, ma si può fare. L’editoria, come l’economia, non ha cuore. Guarda ai ricavi.

Nel comunicato che in serata ha annunciato il drammatico epilogo della vertenza, l’Assostampa sarda e la Cgil lamentano l’assenza delle istituzioni e della politica, che in questi mesi – al di là delle immancabili dichiarazioni di solidarietà – non hanno mosso un dito per evitare questo epilogo: due mozioni depositate in Consiglio regionale sulla situazione dell’emittente cagliaritana e sullo stato dell’informazione sarda non sono state ancora discusse dall’Aula.

Informazione e solidarietà

Ma siamo proprio sicuri che la discussione di queste due mozioni avrebbe risolto la vertenza dei lavoratori di Sardegna 1 ridando vigore all’informazione? Altre mozioni erano state presentate in passato al Consiglio regionale. E anche interrogazioni parlamentari. Per Epolis e per Sardegna 24.

Siamo sicuri che la Giunta, occupandosene, risolverebbe davvero i problemi dell’informazione in Sardegna? La stessa Giunta che, con scelta discutibile, invece di attingere dalle corpose schiere di giornalisti disoccupati (ce ne sono tanti bravi), ha preferito affidare il suo ufficio stampa a un pur bravissimo giornalista che però è già in pensione e teoricamente non avrebbe alcun bisogno di lavorare?

Certo, anche questa era una cosa che si poteva legittimamente fare. Ed è stata fatta. Ci son tante cose che in teoria si possono fare ma che, se fatte, fanno male al cosiddetto pluralismo dell’informazione. O cose che viceversa non vengono fatte mentre bisognerebbe farle. Si potrebbero regolamentare meglio i finanziamenti per l’editoria, ad esempio. Monitorare il loro utilizzo e subordinarli alla trasparenza dell’amministrazione dell’azienda e al pagamento regolare degli stipendi dei dipendenti. Oppure, come sostengono alcuni, si potrebbe sopprimere qualsiasi forma di contributo alla stampa. Cosa che in alcuni casi sarebbe probabilmente stata la soluzione migliore.

Eppure non si fa nulla di tutto questo.

Anche i giornalisti, d’altronde, potrebbero fare tante cose che non fanno.

Proprio in questi giorni abbiamo celebrato i fasti di Epolis, la free press gratuita fondata a Cagliari dal visionario Niki Grauso e rilevata dall’imprenditore trentino Alberto Rigotti: una gestione disastrosa che ha portato ad un buco di milioni e milioni di debiti.

La Guardia di Finanza ci sta spiegando che certe cose un imprenditore non le può fare. Ovvero fare la bella vita, comprarsi macchinoni, fare viaggi e frequentare palestre costosissime tenendo i propri lavoratori senza stipendio, non versando i contributi e non accantonando le rate del Tfr.

L’arresto dell’ex editore Rigotti e dei suoi soci fa però tornare alla mente anche tante cose che sono state fatte da alcuni giornalisti di Epolis durante i giorni della chiusura del giornale, in quell’estate 2010.

Cose che probabilmente non dovevano essere fatte. Come, nel periodo della sospensione delle pubblicazioni antecedente al fallimento, il fantomatico accordo di alcuni giornalisti con il suddetto editore per far ripartire il giornale lasciando indietro altri colleghi fuori dai giochi (l’elenco dei fortunati pare fosse già stato stilato e stesse circolando sottobanco). Oppure l’avere lasciato praticamente soli gli impiegati dell’amministrazione e i poligrafici nei giorni dell’occupazione della sede di viale Trieste, quasi la vertenza per difendere il posto di lavoro riguardasse soltanto loro (la maggior parte dei colleghi giornalisti, passati i giorni di visibilità in cui qualche politico ed esponente sindacale vennero a darci gli immancabili attestati di solidarietà, non si fece più vedere).

Tutto legittimo: teoricamente si poteva fare ed è stato fatto.

informazione
In pochi, dunque, assistettero alla incontenibile rabbia delle segretarie dopo il ritrovamento, nell’ufficio al secondo piano della redazione, di una scatola di marca nuova di zecca con dentro le scarpe vecchie del direttore.

Mentre i lavoratori stavano perdendo il posto, prima di sparire per sempre da Cagliari, il direttore non aveva trovato di meglio da fare che comprarsi un paio di scarpe di marca molto costose lasciando in redazione le scarpe vecchie. Non so perchè, ma il ritrovamento di quelle scarpe, che furono immediatamente appese con rabbia allo stipite del portone, suscitò nei dipendenti un’ondata di indignazione.

Quelle scarpe vecchie diventarono il simbolo della disastrosa situazione del giornale. Di un posto di lavoro che andava in fumo. Di come eravamo stati trattati dall’azienda. Di come ci eravamo disuniti invece di rimanere compatti di fronte alle avversità.

Adesso, nei giorni bui come questo, si continua a chiedere l’aiuto della politica per risolvere i problemi dell’informazione in Sardegna. Senza rendersi conto che il problema della nostra informazione è soprattutto la poca unità della categoria e la mancanza di solidarietà tra colleghi.

Sulla scorta della mia esperienza con Epolis, speravo che almeno i colleghi di Sardegna 1 riuscissero a rimanere uniti. Ma alla fine purtroppo anche loro si sono sfaldati. I giornalisti raccontano sempre le vertenze degli altri, ma regolarmente non sono in grado di portare avanti uniti le proprie.

Chiedono aiuto alla politica, senza rendersi conto che il problema dell’informazione in Sardegna è spesso l’eccessiva vicinanza del giornalismo alla politica. Non tanto il lavorare per la politica, che è una fonte di lavoro come un’altra per i giornalisti, ma l’essere asserviti alla politica. L’usare la politica per accaparrarsi i posti migliori senza usare le stesse armi rispetto agli altri. E di conseguenza l’essere usati dalla politica.

Allora, proviamo a non chiedere più alla politica di risolvere i problemi dell’informazione. Tanto la politica non può andare oltre qualche dichiarazione di solidarietà. Proviamo a svegliarci ed alzare la testa. Ad essere più uniti e solidali. E a rapportarci alla politica da giornalisti.
Altrimenti la maggior parte di noi rischia di finire veramente dentro una scatola vuota. Come le scarpe vecchie del direttore di Epolis.

In bocca al lupo ai colleghi di Sardegna 1 e anche a tutti quelli che speriano in una informazione libera e autonoma.

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