Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa si poggia su una beffa imbarazzante. Voluto e costruito da Asia Argento, dopo la lettura dell’omonimo libro di J.T. Leroy, scrittore rivelazione di fine anni ‘90, che aveva scosso milioni di lettori con il suo autobiografismo di infanzia negata e soggetta a terribili violenze (tra abbandono, droga e prostituzione), il film si è rivelato la legittimazione cinematografica di un ‘falso storico’. Perché J.T. Leroy e il suo modus vivendi estremo e dissacrante non esistono. Dietro questo personaggio si celava in realtà una quarantenne, Laura Albert, che ha pensato di attirare l’attenzione su ciò che scriveva, inventandosi un’identità sicuramente più ‘attraente’: un giovane scrittore malato di Aids, con una vita già consumata a 14 anni dentro un’inferno di trasgressioni e dolore, cui era stato indotto da una madre prostituta e tossicodipendente.
L’ingenua Asia, trasgressiva per natura, è rimasta attratta dal libro e da tutto ciò che lo scrittore rappresentava, dando vita al suo secondo lungometraggio (dopo l’impronta Abel-Ferrariana di Scarlet Diva, uscito nel 2000, primo suo lavoro da regista). L’occhio filmico non le manca affatto: Ingannevole è il cuore più di ogni altra cosa è, innanzitutto, uno sguardo non banale da prospettive inconsuete. Seguiamo il viaggio nell’inferno di Jeremiah, bimbo strappato alla normalità e alla sicurezza di una famiglia adottiva da una voglia di maternità che è necessità di un punto di riferimento per Sarah, giovane donna senza direzione e speranza che, minorenne, l’aveva generato e che ora torna a riprendersi. Da quel distacco feroce del piccolo ha inizio la sua trasformazione: vedendolo immerso completamente in un buio sempre più cupo tra anfetamine, cinghie alle quali presto si abitua quale punizione dovuta, cibo rubato dalla spazzatura, accoppiamenti e prostituzione della madre che inevitabilmente lo coinvolgeranno quale appendice, abbandoni intervallati dalla custodia di nonni estremisti religiosi e sessuofobici, non possiamo non sporcarci e inquietarci, avvertendo la perdita di qualunque centro a cui aggrapparci. Un incubo a cielo aperto, carico di simbolismi e di personaggi altrettanto simbolici nella realtà del paradosso che rappresentano: Wynona Ryder, assistente sociale lobotomizzata; Ornella Muti e Peter Fonda, i genitori di Sarah, ossessionati dalla Bibbia e imperniati di sadismo; Marilyn Manson, uno dei partner di Sahara che finirà per confondere la madre con il bambino (la bambina nella quale lei ha trasformato Jeremiah), abusandone.
Asia Argento mette al centro della storia in primis Jeremiah e la sua infanzia negata, elevandolo a martire, agnello sacrificale, il quale finirà per scoprire e trovare un’amore immenso nella madre che l’ha originato, ‘accettando’ l’inferno che l’ha partorita e dal quale, fragile all’estremo, Sarah non è mai riuscita a scappare. L’attrice dall’amore per lo scandalo si rivela assai abile nell’addossarsi il ruolo scomodo di Sarah, che calza a pennello, e nel dirigere con piglio e maestria una caduta nel vuoto, alternando una macchina da presa mutevole, nella velocità e nella distanza da cui guarda, ad una fotografia parimenti variegata e camaleontica rispetto ai deliri, le visioni e la cruda realtà che rappresenta, facendoci toccare e respirare il senso del perdersi.
Maria Cera