di Maria D’Ambra
Malina (1971) è il romanzo che Ingeborg Bachmann (1926-1973) aveva definito come la sua biografia immaginaria, è il primo volume di una trilogia intitolata Todesarten (cause di morte), gli altri due, Il caso Franza e Requiem per Fanny Goldmann sono rimasti incompiuti e sono stati pubblicati postumi. Esiste anche una trasposizione cinematografica di Malina sceneggiata dal premio Nobel Elfriede Jelinek. Il film del 1991 è di Werner Schroeter ed ha come protagonista principale Isabelle Huppert.
La società è il più grande teatro del delitto. Con la massima leggerezza sono stati deposti in essa da sempre i germi dei più incredibili crimini, che restano ignoti per sempre ai tribunali di questo mondo.
Il libro si apre con l’elenco dei personaggi come se si trattasse di un’opera teatrale, poi viene introdotta una storia d’amore da romanzo classico, ma andando avanti ci si accorge che è impossibile far rientrare questo libro in una classificazione precisa. Bachmann utilizza infatti un numero infinito di tecniche narrative, metodi sperimentali da romanzo moderno, un incessante monologo interiore, dialoghi, fiabe, leggende, conversazioni telefoniche spezzettate, qualche rigo musicale con note al posto delle parole, espressioni musicali, notizie dei giornali, tutto un capitolo intriso di linguaggio onirico, poesia e ancora l’utilizzo di qualsiasi mezzo comunicativo, il telefono, il telegramma, un quantitativo enorme di lettere mai spedite, una bizzarra intervista, modi di dire, intromissioni di frasi in francese, in inglese, in italiano, descrizioni che sembrano riprese cinematografiche e molti silenzi eloquenti, frasi non dette che pure si intuiscono, che fanno da tramite in tutti questi mondi interiori ed esteriori e in tutti questi livelli narrativi che si separano e si intersecano di continuo.
Il romanzo si presta anche a diversi livelli di lettura. Una lettura “tradizionale” che vede tre protagonisti diversi, ognuno con una singola personalità. Ivan è un ungherese cinico e senza alcun interesse intellettuale, che lavora in un istituto di credito, Malina è uno studioso di storia di quarant’anni che lavora nel Museo dell’Esercito austriaco e infine la narratrice della quale si sa soltanto che è bionda e con gli occhi scuri poiché gli ulteriori dati sono stati scritti e cancellati così tante volte da essere divenuti illeggibili.
Io: Ah! Sono un’altra, vuoi dire, e sarò poi un’altra ancora!
Malina: No, che assurdità. Tu sei certo te stessa, questo non puoi più cambiarlo. Ma un Io subisce, un Io agisce. Però tu non agirai più.
Io: (diminuendo) Non mi è mai piaciuto agire.
Malina: Eppure hai agito. E hai permesso che agissero con te, e si servissero di te, e hai anche permesso che decidessero di te.
Una lettura in chiave “psicanalitica” dove la voce narrante è a sua volta protagonista insieme ad altri due personaggi nei quali si sdoppia, dando vita ad un trio inquietante che portando in superficie tre aspetti differenti dell’io, anziché arricchirlo, finisce con l’annullarlo. La donna che racconta non ha nome e viene indicata nel testo con Io, l’uomo che incarna la speranza e di cui è innamorata è Ivan, colui che porta alla vita, che è vita, ma che non può vincere, personalità destinata a diventare sempre più fredda e distaccata fino a svanire. La lotta più strenua sarà tra Io e Malina che alla fine risulterà la personalità dominante (come si evince anche dal titolo del libro che porta il suo nome) malgrado sembri l’artefice di un gioco di ascolto paziente, renderà però impossibile ad Io svelarsi, rivelarsi, tanto da risolvere i conflitti interiori, anzi, malgrado i suoi andirivieni in cui Io può emergere, in verità Malina creerà in lei una necessità, un bisogno di fare riaffiorare lui sempre più spesso, tanto da provocarle una sorta di dipendenza, che, unita allo stordimento indotto dai sonniferi, la separerà sempre più da se stessa e dalla realtà circostante, fino all’occultamento definitivo dentro una crepa del muro. Lì Io si seppellirà, come se non fosse mai esistita.
Il tempo del racconto non può che essere il presente dell’interiorità dove ogni cosa accade sempre, adesso.
Guardo Malina fisso, ma lui non solleva gli occhi. Mi alzo in piedi e penso, se non dice subito qualcosa, se non mi trattiene è un assassinio, e mi allontano perché non posso più dirlo. Non è poi tanto terribile, solo che i nostri scontri sono più terribili di ogni altro scontro. Ho vissuto in Ivan e muoio in Malina.
E ancora c’è un’altra chiave di lettura non meno importante, quella sulla scrittura e sul rapporto dell’autore con la sua opera per cui Malina diventa metafora della scrittura stessa e per questo forza invincibile che può annientare il suo creatore, ma non se stessa.
Il capitolo centrale è dedicato alla trascrizione di alcuni sogni ed è intriso di linguaggio simbolico. Lo scopo è quello di narrare l’origine della prevaricazione dell’uomo sulla donna. Il capitolo si intitola Il terzo uomo (che è anche il titolo di un film del 1949 diretto da Carol Reed) e l’uomo in questione è il padre, non semplicemente il padre di Io, ma il principio maschile che sta alla base del pensiero predominante con tutto il suo retaggio di violenza e ingordigia devastatrice che divora i suoi stessi figli. Una delle immagini più importanti all’interno del capitolo è infatti il cimitero delle figlie assassinate e nella storia questo assassinio si perpetua attraverso gli incesti, gli stupri, i divieti, le privazioni delle libertà essenziali, l’annullamento dell’individualità pensante e con ogni tipo di violenza possibile.Ogni morte è un omicidio. E noi mortali lo sappiamo bene, visto che siamo le vittime sacrificali di un ciclo inevitabile che ci condanna a morte nell’esatto momento in cui nasciamo.
Io: Non è mio padre. È il mio assassino.
Malina non risponde.
Io: È il mio assassino.
Malina: Sì, lo so.
Io non rispondo.
Malina: Perché hai detto sempre: mio padre?
Io: L’ho detto davvero? Come ho potuto dirlo? Non volevo dirlo, ma si può solo raccontare ciò che si vede, e ti ho raccontato esattamente quello che mi è stato mostrato. Ho voluto anche dirgli ciò che ho capito da un pezzo – e cioè che qui non si muore, qui si viene assassinati. Quindi capisco anche perché è potuto entrare nella mia vita. Uno doveva farlo. È stato lui.
Malina: Dunque non dirai mai più: guerra e pace.
Io: Mai più.
C’è sempre guerra.
Qui c’è sempre violenza.
Qui c’è sempre lotta.
È la guerra eterna.
Come scrive Rita Svandrlik in Ingeborg Bachmann: i sentieri della scrittura (2001, Carocci): Il padre è depositario del potere istituzionale e soprattutto culturale […] Egli usa il potere, la violenza e la crudeltà fisica sempre al fine di provocare la sofferenza della figlia, ma anche delle altre donne[…] Il motivo del cimitero ritorna in tre sogni diversi, che rappresentano da differenti punti di vista la dipendenza totale delle figlie dal padre, quindi del femminile dal maschile. Simbolo di questo mortale legame è l’anello, che il padre dà prima ad Io, poi alla sorella Eleonore e quindi all’amante Melanie. Così nel sogno in cui le figlie assassinate sorgono dalle loro tombe mostrando una mano senza il dito anulare, il padre le uccide una seconda volta, ordinando alle acque del lago di sommergere il cimitero. Egli usa tutte le donne della famiglia, ne abusa sessualmente e le rende oggetti interscambiabili, grazie alla loro passività e arrendevolezza, alla loro complicità e disponibilità al compromesso.
Le donne fin dall’antichità sono state usate come bottino di guerra o merce di scambio tra uomini estranei, ma anche da parte di padri o mariti, eppure una porzione dell’universo femminile finisce con l’essere compiacente nel mantenere attive certe consuetudini, vuoi per paura, vuoi per costrizione, vuoi per ignoranza, rimane il fatto che finché le donne non capiranno che l’unico modo per salvarsi viene da se stesse e non certo dai vari principi azzurri dei quali è costellato l’immaginario collettivo, mai riusciranno a sconfiggere il “padre violento” che le domina.
Non ci sono croci, ma sopra ogni tomba si formano cumuli densi e neri. Le tombe, le targhe con le epigrafi si riconoscono appena. Mio padre mi è accanto e ritrae la mano dalla mia spalla perché il becchino ci si è avvicinato. Mio padre guarda imperioso il vecchio, il becchino si volta impaurito dopo quello sguardo di mio padre, dalla mia parte. Vuole parlare, ma muove a lungo solo le labbra, muto, e sento appena la sua ultima frase:
Questo è il cimitero delle figlie assassinate.
L’abitazione di Io è il luogo di fuga, ma anche la prigione e la tomba nella quale rinchiudersi. Il mondo circostante è intollerabile, ha tradito gli ideali di libertà e civiltà, l’esempio dei nazisti ha costruito un passato che non può essere confinato nel ricordo, ma che rimarrà sempre presente, la scrittura dunque rimane l’unica speranza perché la lingua ingannata e profanata può sempre essere reinventata. La storia recente è presente nel romanzo, anche Vienna ne porta le tracce e la stessa Bachmann ne è segnata, tanto che nelle sue note biografiche dirà che la sua infanzia è stata distrutta dall’ingresso delle truppe di Hitler a Klagenfurt e con questa realtà dolorosa e brutale dovrà convivere per tutta la vita, perché la guerra non smette mai. Lo scrittore può e deve farsi carico della sofferenza del mondo, è l’unico in grado di annullare i confini tra ciò che può essere detto e ciò che non si può dire, l’opera d’arte porta la parola laddove può regnare solo il silenzio.Il maschile e il femminile si incontrano in Io-Malina, quando Io si sente insicura, ecco che compare subito un protettivo Malina, così come nei momenti di difficoltà di Io rispetto alla scrittura e alla parola in genere, un settore dal quale le donne sono state escluse per tanto, tantissimo tempo, l’intervento di Malina, della cultura istituzionale, mette a posto le cose, il caos che lascia dietro di sé l’inquietudine di Io viene coscienziosamente ordinato dal pragmatico Malina.
Nelle lettere che scrive Io si firma con una sconosciuta, e di certo lo è, a se stessa, precipitata com’è in quella confusione interiore che annebbia la sua individualità, ma anche agli altri in quanto donna e dunque costretta all’oblio rispetto alla documentazione ufficiale, destinata a sparire nella crepa di un muro per lasciare posto al suo lato maschile o uccisa dal padre o passata per il camino insieme a milioni di ebrei, tutto per il principio dominante, la logica imperiosa ed imperante della forza dittatoriale di un mondo che ha stabilito confini territoriali per i paesi e ruoli imprescindibili per le persone, sempre con l’avallo della parola divina.
A volte cammino per una strada, e appena vedo qualcuno che mi è superiore, non posso fare a meno di seguirlo, ma è naturale o normale questo? Sono una donna o qualcosa di dimorfo? Non sono del tutto una donna, e allora che cosa sono? Nei giornali ci sono spesso notizie atroci. A Pötzleinsdorf, nelle golene vicino al Prater, nel Wienerwald, in ogni periferia una donna è stata assassinata, strangolata – anche a me è quasi successo, ma non in periferia -, strozzata da un individuo brutale, e allora penso sempre: potresti essere tu, sarai tu. Sconosciuta assassinata da mano ignota.