*questo post contiene diversi spoiler ed essendomi spesso trovata a visitare siti o blog in cui veniva sputtanata la trama dettagliata senza avvertire il lettore, mi sento in dovere di informarvi: guardate prima il film e poi leggete questa recensione.
Lasciatemi cominciare con una premessa. Lo so, devo sempre essere arrabbiata quando parlo di certi film, ma sopratutto quando si tratta di film di Quentin Tarantino.
Adoro Tarantino al limite della completa idiozia mentale, ho visto Kill Bill qualsiasi volume dieci volte e Grindhouse almeno quindici. Non vi preoccupate che ho visto anche Pulp Fiction e Reservoir dogs, Four rooms e qualche stralcio di Jackie Brown su cui ho da recuperare. Ho visto anche Sin city e alcuni lavori del suo figlioccio Robert Rodriguez, quindi non mi ritengo una fan dell’ultima ora. Punto. Detto ciò, la mia premessa comprende anche una considerazione in merito a tutti quelli che, in qualsivoglia campo (musica, cinema, arte) hanno sempre questa frasetta ridicola in bocca “oh, ma tiziocaioregistaattoreartistacantante si è svenduto ed è diventato commerciale”. Ma che significa? E’ chiaro che per riuscire a distribuire il tuo prodotto qualche compromesso devi farlo, altrimenti non faresti altro che vivere guardando i film che hai girato senza trovare nessuno che te li distribuisca. Nei limiti della coerenza professionale e personale lo ritengo opportuno, altrimenti oggi non avremmo tanta buona musica e tante belle pellicole. Insomma, il concetto di commerciale è stupido, ritengo che qualsiasi cosa prima o dopo diventi “commerciale” per il semplice fatto che viene venduta. Se Tarantino fosse rimasto fisso ai tempi di Four rooms o della prima introvabile pellicola che girò a casa di qualche amico, non avremmo avuto Uma Thurman con il caschetto nero che si bomba di eroina dal naso, Tim Roth che rapina una caffetteria o Samuel L. Jackson che suona il pianoforte in un bel cameo in Kill Bill Vol. 2.
Fatta questa infinitamente sconclusionata premessa (non sono brava ad articolare pensieri connessi quando mi infervoro per qualche questione a cui tengo particolarmente), la concludo rivolgendomi a tutti quegli individui che hanno definito questo film:
- commerciale
- non un film propriamente tarantiniano
- diverso dai precedenti (no, perché infatti Kill Bill era identico a Reservoir dogs.. Mah!)
- l’ennesimo insieme di citazioni da studente di cinema
- Tarantino è sopravvalutatissssssimo
Su questo penultimo punto, vorrei avanzare qualche obiezione, tra cui: porca miseria, ma quale regista non vorrebbe essere in grado di citare il cinema con il modus operandi di Tarantino? E sull’ultimo punto non penso nemmeno di dovermi soffermare, perché comunque la pensiate io credo sia un ottimo regista.
Posso ora finalmente dedicarmi al film.
La trama è già di per sé un culto: siamo nel periodo della seconda guerra mondiale (1944) quando un gruppo di otto americani (The bastards), capeggiati da un Brad Pitt in stato di grazia e con un improbabile accento da uomo del sud (il suo personaggio è un tenente del Tennessee, Aldo Raine) decide, in anticipo sull’azione ufficiale, di andare ad ammazzare un po’ di tedeschi in Europa, precisamente a Parigi.
Contemporaneamente una ragazza ebrea (Mélanie Laurent-Shoshanna) scampata alla morte per mano del famigerato colonnello Hans Landa (Cristoph Waltz spaventosamente bravo) decide di tendere un’imboscata ai nazisti, compresi i pezzi grossi del regime, nel suo piccolo cinema parigino.
Il film presenta due piani di racconto differenti ma paralleli che si incrociano per tutto il film e si uniscono alla fine con la mega reunion generale nel cinema. Un elemento che tiene incollati allo schermo e mantiene viva l’attenzione in un film che dura due ore e mezza abbondanti ma che, grazie anche a questa trovata, non perde mai ritmo in maniera decisiva. L’unica sequenza in cui ho pregato in uno svolgimento rapido è stata quella in cui Hans Landa, Aldo Raine e il soldato Utivich parlano al tavolo nel tentativo di Landa di estorcere un accordo agli americani. Troppo lunga, ma il dialogo compensa questo particolare.
Non sono abbastanza esperta di spaghetti western per ricostruire tutte le citazioni presenti nel film, quindi vi rimando a questo sito dove trovate tantissime curiosità sul film nonché quelle relative al cameo di Tarantino e alla voce narrante del film, nientemeno che Samuel L. Jackson. Notate inoltre una certa fedeltà dimostrata dal regista verso gli attori (Julie Dreyfus in primis) e la sua coerenza nel dettagliare il film dei tratti tipicamente tarantiniani che caratterizzano da sempre il suo lavoro.
Il film è costellato di dettagli che lo rendono una vera chicca: Mike Meyers (Ed Fenech, omaggio a Edwige Fenech) che accoglie Michael Fassbender (Archie Hicox) per spiegargli il piano di collaborazione con i Bastardi, Julie Dreyfus che si presta ad una comica scena di sesso con Goebbels (Sylvester Groth), Adolf Hitler con mappa bollata di svastiche, mantello da imperatore e pittore personale che lo ritrae decisamente più alto, il film diviso in capitoli come Kill Bill, Aldo Raine che infila un dito nella ferita della Von Hammersmark e molto altro.
Nel film vengono parlate quattro lingue: inglese, francese, tedesco e italiano, che chiaramente non si possono apprezzare appieno nella versione doppiata in italiano ma solo nella versione originale. Brad Pitt, Eli Roth e Omar Doom (in Grindhouse: deathproof era quell’imbranato che ci provava con Vanessa Ferlito-Arlene) nella scena in cui fanno da accompagnatori alla Von Hammersmark parlano un terribile italiano e Cristoph Waltz li ridicolizza mostrando un ottimo accento e chiedendo loro più volte di ripetere il cognome che portano (divertente Brad Pitt che deve tenere, oltre all’accento italiano, anche l’accento da tizio del Tennessee e fa uscire un suono ancora pià tremendo) e questo è l’ennesimo omaggio che il regista dedica al nostro paese, assieme alle citazioni da Sergio Leone a quelle sui B-movie.
Michael Fassbender è una piacevole sorpresa, considerando che in precedenza l’ho visto calarsi in ruoli tremendamente pesanti come quello di Jung in A dangerous method o di un uomo dipendente dal sesso in Shame: il suo Archie Hicox, per quanto resista per appena tre scene, oltre ad aggiungere una certa vena di testosterone positivo al film (leggasi un bel figliolo), si rivela anche incredibilmente ironico ed allo stesso tempo intenso. Insomma, bel personaggio, come quello di Hugo Stiglitz, conosciuto per essere un formidabile assassino di ebrei e che parla per quattro battute in tutto il film, visto che in fondo l’importante è l’azione, si sa.
Eli Roth è un’altra perla del film, si era già visto in Grindhouse: deathproof dove intepretava un non proprio nobile omino che voleva farsi Jordan Ladd-Shanna. Qui è l’orso ebreo che fa incazzare a morte Hitler (nein, nein, nein, nein!) e che sfonda teste ai tedeschi con una mazza da baseball. La sua peculiarità è seconda solo a quella degli altri Bastardi di togliere lo scalpo ai soldati uccisi o a quella di Aldo Raine di incidere una svastica sulla fronte dei tedeschi.
Diane Kruger mi è piaciuta in questo film e, per me che di solito non la posso vedere è già tanto. Mentre Shosanna si prepara alla grande serata contro i nazisti, sullo sfondo si intravede una locandina con l’attrice immaginaria interpretata dalla Kruger, la quale però non viene tratta molto bene da Landa e da Tarantino (sue le mani nella scena in cui viene strozzata), ma dimostra di avere le palle uccidendo un nazista mentre si trova a terra sommersa in un lago di sangue (riferimeti a Kill Bill a iosa per i maniaci).
Credo sia il momento di parlare di lei, Shoshanna, personaggio sul quale vi avranno già sfrantumanto le scatole a sufficienza visto che è iconica e iconicamente vittima assoluta di tutto il film.
E’ lei che ha perso tutta la famiglia, uccisa dal colonnello Hans Land, spietato investigatore nazista dall’incredibile intuito che li uccide tutti mentre stanno nascosti, bocche tappate, sotto il pavimento di casa LaPadite (una delle figlie dei LaPadite è Léa Seydoux). E’ ancora lei che coraggiosamente si rintana in Francia e dialoga sfrontatamente prima con un soldato nazista poi con Goebbels in persona perdendo il controllo delle proprie emozioni e del proprio sangue freddo solo dopo il dialogo con Landa, che ha evidentemente già capito o fiutato di trovarsi di fronte a quella Shoshanna cui aveva gridato, quattro anni prima, “Au revoir, Shoshannà!” con quell’accento sul finire del suo nome appositamente arrogante. E’ lei che decide di bruciare il cinema tramite le amate pellicole in nitrato (un tipo di pellicola che era effettivamente pericolosissima e spesso bruciava all’interno del proiettore stesso durante la proiezione del film). Il personaggio di Shoshanna è centrale e, come la musa numero uno di Tarantino Uma Thurman è bionda e si lascia andare alla compassione in pochissime occasioni; nel caso di Shoshanna, la sua occasione si rivelerà fatale.
Splendida in abito rosso e veletta, la sequenza della sua preparazione è magnifica, anche se qualcosa mi ha fatto apprezzare anche la scena del dialogo con Landa, quando lui terribile e crudele fa portare due strudel e un bicchiere di latte per lei (un bicchiere di latte era quello che aveva chiesto Landa mentre interrogava LaPadite padre nella casa-lattificio in cui si nascondeva la famiglia Dreyfus) e si gusta lo strudel con arroganza divorandone un grosso boccone quindi spegnendo la sigaretta nel dolce rimasto mentre Shoshanna si avventa con rabbia sullo strudel infilzando la forchetta come infilzerebbe probabilmente la testa del colonnello, se potesse. Il cibo nei film di Tarantino c’è sempre, vi cito come esempio solo Grindhouse: deathproof dove Kurt Russell mangia dei tacos con gusto e alla faccia nostra leccandosi pure le dita e Pulp Fiction dove una lunga discussione sugli hamburger è al centro del dialogo fra John Travolta e Samuel L. Jackson (che poco dopo se lo gusta pure). Lo zoom sull’azione di preparare o mangiare del cibo si ritrova spesso in Tarantino, come la ripresa dal basso, soggettiva rispetto ad un determinato personaggio ferito o morto (o un cofano aperto) e la fissa per i piedi (la scena della Von Hammersmark con Landa vi basti come esempio assoluto di tutto il cinema tarantiniano).
Shoshanna è, per dirla con tono, la nemesi di Landa, che si rivela poi solo un bambinone immaturo quando gioca a Risiko con gli americani e si becca finalmente quel che merita, una vendetta per Shoshanna e per tutti i Bastardi periti (di otto ne rimangono solo due alla fine del film).
Guardando il trailer di questo film, inizialmente avevo alla mente Valkyrie, anche se in quel film la questione riguarda il gruppo di nazisti che danno contro al nazimo, detta alla buona. A periodo siamo sempre lì, ma le somiglianze riguardano solo questo dettaglio. In realtà non so bene come sia possibile mi sia venuto in mente, probabilmente per la datazione e il fatto che il bersaglio fosse, in un modo o nell’altro, Hitler.
Hitler diventa simbolo di male assoluto, in Tarantino, basti vedere la scena in cui il sergente Donowitz (Eli Roth) spara con uno sguardo infuocato al volto del dittatore, una sorta di volontà tarantiniana di dichiarare “state tranquilli, è morto sul serio e come avrebbe meritato, almeno in questo film”. Viene dipinto come un idiota compatito dai suoi stessi ufficiali e collaboratori, nevrotico e megalomane come era; non certo con la stessa concisione di Charlie Chaplin di un dittatore che gioca a palla con un grande mappamondo, ma il richiamo sta tutto nel concetto di folle fame di conquista che gli era propria.
Potrei dilungarmi all’infinito su questo film e sono sicura di aver dimenticato di dire tante cose che avrei voluto dire, ma questo è quanto. Non ho ancora visto Django unchained ma questo, per molti “nuovo” Tarantino, mi piace. In realtà è solo un Tarantino maturo ed evoluto che finalmente manda in porto quel che ha sempre desiderato e dimostra di essere un tipo di parola: anni fa parlava proprio del suo amore per i western e gli spaghetti western e in Italia, oltre a dimostrare di saper parlare discretamente bene la nostra lingua, era contento di poter entrare in contatto con gli attori dei b-movie degli anni ’70 con quella gioia infantile tipica di chi ci è cresciuto. In quelle occasioni dichiarava spesso di voler realizzare più film sulla vena degli spaghetti westerns e così ha fatto, non in maniera grezza e didascalica ma reinventando gli elementi alla base di quel genere di cinema e dando loro nuovo smalto. Ha rivalutato un genere a suo modo e lo sta ancora rivalutando con stile.
Se poi qualcuno ritiene sia commerciale e non se lo fila per andarsi a vedere per la cinquantesima volta 500 days of summer, auguri a lui e sai che noia.