Qualche giorno fa, ho avuto il piacere di capitare in una di quelle uscite con amici di vecchia data che, scomparsi dai radar delle frequentazioni, "a volte ritornano" con tutto il loro carico di rimembranze e riflessioni a me sempre foriere di piacevoli ruminamenti.
Tra le varie chiacchiere sui bei tempi andati, un'amica mi ha fatto riflettere interrogandoci sulla possibilità di vivere appieno senza cadere nei possibili pasticci dell'innamoramento.
Mi ha fatto pensare perché è domanda che, sotto varie fogge, spessissimo emerge durante il lavoro clinico in studio e che possiamo così tradurre: "Come faccio a non soffrire?".
Quesito da un milione di dollari e solo apparentemente banale, perché se è vero che ogni creatura vivente tende a fuggire dalla sofferenza e a ricercare il piacere, in quel particolare e unico animale che è l'homo sapiens, la cosa si manifesta in modo anomalo e degno di speculazione.
In primo luogo mi viene da dire che, non a caso, la gran parte delle volte la richiesta a non soffrire ha al centro (come per l'amica di cui sopra) il tema dell'amore. Uomini e donne che sono stati in qualche modo lacerati, una o più volte, da sentimenti non corrisposti o non più corrisposti e chiedono una ricetta per far sì che la ferita non solo si rimargini, ma non abbia più a presentarsi.
L'uomo, infatti, è l'unico animale che si innamora o, meglio, il cui rituale per giungere all'accoppiamento si è così strutturato e complicato da coinvolgere l'intero suo essere ben al di là della necessità dell'accoppiamento stesso. Gli altri animali inoltre, per quanto ne sappiamo, non soffrono per amore, ma forse anche per questo non hanno mai scritto una poesia, composto un brano musicale, dipinto un quadro o cose del genere.
A pensarci bene, la produzione di quella cosa che chiamiamo arte, cultura viene prima stimolata e poi si concreta, per almeno un novanta per cento, proprio sotto la spinta degli effluvi amorosi.
Manuel Vázquez Montalbán, così riassume questa specificità umana: "Un uomo guarda una donna e la donna dice sì o no. Tutto il resto è cultura.".
Ecco, quella cultura che fa tutto il resto è il vero contenitore dell'umanità, ciò che ci ha differenziato, nel bene e nel male, dal mondo strettamente animale. Rinunciarci, anche solo per evitare la possibilità della sofferenza, significa, in qualche modo, venire meno al nostro essere uomini e forse venir meno anche alla stessa felicità. il cui composto magico non è che il risultato di una mescola in cui la sofferenza è presente in buone dosi.
Ovviamente tutto questo non significa né rassegnarsi né, tantomeno, cercare la sofferenza (masochisti esclusi, of course). Significa, bensì, imparare a pensare che non c'è notte senza giorno, che il buio è ciò che rende la luce più splendente e che certi afosi giorni d'estate fanno tanto più agognare la frescura della notte.
La felicità e, soprattutto, la felicità che evapora dai pori dell'amore è, insomma, un amalgama che si alimenta anche per e nella sofferenza, ed è proprio perché un'amore finisce che un altro può vivere la magia di cominciare.
Il trucco consta, come spesso suggerisco alle persone che cerco di accompagnare fuori dal tunnel di questo dolore, nel non perdere mai l'occasione dell'amore, che non significa esclusivamente centrasi sull'uomo o la donna della mia vita (non solo); significa -bensì- lanciare ogni giorno il proprio cuore oltre ogni ostacolo della cautela, abbandonarsi ogni giorno a questo superpotere esclusivamente umano e... certo amare colui o colei che ci sta a fianco in questo tratto di viaggio, ma anche innamorarsi della voce dell'uomo o della donna che ci siede accanto sul bus, della gentilezza di un collega, dello sguardo sconosciuto che ci incrocia per strada... perché, come suggerisce una bella canzone di Jovanotti: "Ci vuole pioggia / vento / e sangue nelle vene / e una ragione per vivere / per sollevare le palpebre / e non restare a compiangermi / e innamorarmi ogni giorno ogni ora ogni giorno ogni ora di più..." facendo del nostro potere d'amare quella costante spinta a creare che è esclusa agli altri viventi e in cui solo risiede la felicità.
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Massimo Silvano Galli
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