Magazine Cultura
Qualsiasi innovazione prima o poi si converte in tradizione. Riflettevo su questa constatazione di Walter Benjamin venerdì scorso mentre assistevo al Teatro Carignano di Torino a Man of flesh & cardboard (Uomo di carne e cartone), lo spettacolo con cui Alberto Jona e la direzione del Festival del Teatro di Figura hanno riportato in Italia dopo anni i Bread and Puppet, la storica compagnia di teatro d'avanguardia fondata a New York da Peter Schumann nel 1961.
Bread and puppet vuol dire pane e burattini. Sono i due elementi che hanno sempre contraddistinto la proposta di Schumann: le grandi sagome che sono i veri protagonisti dei suoi spettacoli e il pane che la compagnia distribuisce agli spettatori alla fine della performance, un rito laico che è simbolo di condivisione e allo stesso tempo della quotidiana necessità del teatro. Sì, perché il teatro per Bread and Puppet ha sempre voluto dire impegno politico e partecipazione: una concezione non-spettacolare, volta, secondo i dettami del Nuovo Teatro, ad affermare che la scena è vita e non finzione.
Lo spettacolo presentato a Torino non fa eccezione. Esso mette in scena la vicenda del soldato Manning, in attesa di esecuzione in un carcere militare della Virginia per aver rivelato i dettagli di un massacro di civili compiuto da un elicottero dell'esercito americano nel 2009 a Baghdad. L'allestimento presenta tutte le scelte espressive caratteristiche della compagnia: la presenza di Schumann sulla scena - i lunghi capelli e la barba bianchi - in qualità di officiante del rito; la poetica straniante volta di continuo a strappare lo spettatore all'incanto del teatro; la dimensione corale, a rovesciare la logica dell'attore in quella del gruppo e a riprendere la tradizione della tragedia greca, dove proprio il coro rappresenta il punto di vista esterno sui fatti e lo spazio in cui si organizza la coscienza civile; le scelte espressive rarefatte, densamente simboliche, di chiara provenienza orientale (dal kabuki al bunraku, cui sembrano alludere gli attori-burattinai completamente vestiti di nero). Ma il dispositivo spettacolare non innesca più la protesta, non produce l'adesione dello spettatore. Sono cambiati il clima e il contesto. Negli anni '60 durante la guerra del Vietnam Schumann faceva controinformazione, svegliava l'America e le indicava dove stesse la verità, dietro ai depistaggi dei militari. Oggi la guerra ci è già entrata in casa mille volte grazie alla pervasività dei media: ci ha già sensibilizzati e poi gradualmente assuefatti. Così lo spettacolo si sgonfia e dimostra il suo vero funzionamento, al di là delle intenzioni dello stesso Schumann: è archeologia teatrale, è la messa in scena di un gruppo che è ormai storia. Lo conferma il contesto del Carignano, un gioiello architettonico, ma assolutamente contrastante come spazio-ambiente di un gruppo, i Bread and Puppet, che hanno sempre agito i loro happening nelle strade. Insomma, il vissuto è di non essere a teatro, ma in un museo. Per noi che la poetica del Gruppo l'abbiamo conosciuta sui banchi dell'Università una straordinaria (ma anche un po' nostalgica) madeleine; per alcuni giovani due file dietro a me e all'amico Fabio, una provocazione incomprensibile: "Abbiamo pagato!".
Proprio con Fabio ed Enrica, gli amici torinesi che devo ringraziare per la serata, si commentava lo spettacolo, uscendo dalla sala, mentre Irene ed Eugenia - le adorabili figlie di Enrica - si portavano via come trofeo la testa di un burattino fatta di pane. Si commentava organizzando nel dialogo queste considerazioni che ho provato in gran sintesi a restituire. L'Avanguardia, ciò che negli anni '60 era Avanguardia, oggi è tradizione. Vedere i Bread and Puppet a teatro è un'operazione da intellettuali: negli anni '60 era una forma di protesta. Ma mentre noi - come in un cineforum - "leggiamo" il dato culturale, il soldato Manning sta veramente aspettando l'esecuzione e le madri e i bambini di Baghdad sono veramente morti sotto il tiro degli americani. La verità attorno a cui lo spettacolo ruota è nella frase che si organizza sulla lavagna a fogli mobili che Peter Schumann usa nell'angolo del palco. Su quella lavagna, parole sparse cercano un loro ordine durante l'azione. Quando finalmente lo trovano, la frase che ne risulta è: "Where are we going?". Dove stiamo andando? La domanda è per ciascuno di noi.
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